Accettazione, non rassegnazione; confidenza con il proprio corpo, non alienazione, fede assoluta nel risultato sperato – lo stato desiderato si direbbe nella PNL, da contrapporre allo stato presente (in cui, spesso, vige l’assenza: assenza di emozioni, di gioia, di felicità, di risorse in senso lato, e ‘stretto’): ecco tre pilastri per il 'portico' d'ingresso al nuovo anno.
Per uscire dalle ristrettezze (dalla ‘distretta’, per usare un francesismo desueto ma efficace), occorre, anzitutto fede (repetita iuvant), ossia, per dirla nuovamente con un termine desueto ma anch’esso pregnante, ‘confidanza’ (fede ‘cieca’ va pure bene: occorre, infatti, chiudere gli occhi fisici, e anche quelli ‘mentali’, e aprire il ‘terzo occhio’, l’oculus fidei).
Facciamo dunque tabula rasa (ground zero mi verrebbe da dire, se non fosse troppo ‘macabro’) delle nostre convizioni limitanti (anche quelle che riteniamo dei ‘must’, degli obblighi), aiutandoci con qualche esercizio preliminare per ‘ripulire lo specchio’ (quanto meno) – ne parlerò nel prossimo post – e diamoci un obiettivo ‘misurabile’, ossia realizzabile (anche se al momento appare arduo) in un tempo stabilito. Focus (nel senso di obiettivo messo a fuoco, ma anche di ‘fuoco dentro’) e momentum (nel senso ‘energetico’: vi ricordate il momento? La forza per il braccio…).
La forza è la fede, il braccio siamo noi! E poi ricordiamoci che la fede può muovere le montagne... E sempre nella ‘sequela’ di Gesù, qualsiasi cosa voi chiederete nel Suo nome, credete di averla ottenuta, e la otterrete! Gesù ha preceduto la PNL… Ci diceva (e dice tuttora: il Suo Spirito aleggia sulle acque...) di agire come se, di pensare positivo, e di sovrapporre lo stato desiderato sullo stato presente…
Riscopriamo dunque il leone in noi, sovrapponiamo il cigno al brutto anatroccolo e lasciamo il pollo che ci blocca a terra per volare con l’aquila che ci cresce dentro. E soprattutto, cavalchiamo la tigre (ci porterà nella giungla, ma lì, nel suo ‘cuore’, c’è una radura dove batte sempre il sole…).
Per chiudere, un altro ‘pillolone’ dal mio Gocce di pioggia a Jericoacoara. Vi aprirà nuovi orizzonti (o, forse, vi porterà nella ‘radura’).
La sua anima: umana, sub-umana, super-umana. Tre livelli antinomici della stessa istanza psichica, a sua volta in continua lotta (e riappacificazioni) col corpo e lo spirito. Eppure, l’anima avrebbe dovuto fare da mediatrice… Quattro le fasi alchemiche: nigredo, albedo, citredo e rubedo. Lorenzo, nel suo altalenante excursus esistenziale, le aveva attraversate tutte – spesso ‘facendo a pugni’ –, ma non in progressione, piuttosto a salti random. Un po’ Fausto Coppi, un po’ Dottor Faust. Tanto più in quei pochi giorni passati a Pugnochiuso. Una continua ‘apertura’ sui vari ‘loci’ della sua vita e sulle ‘piazze’ del mondo circostante (e di quello ‘sotterraneo’: la Terra di Lorenzo era ‘cava’). Un po’ terra-inverno-notte, un po’acqua-primavera-aurora, poi di nuovo aria-estate-(pieno)giorno. Per finire, fuoco-autunno-tramonto. Ma anche bambino, adolescente, maturo, vecchio. Sempre in ordine sparso.
E ora, in meno di una settimana, queste fasi le aveva riattraversate tutte, sia pur confusamente. Di certo, la nigredo e la rubedo, la terrestrità (se così si può dire) e la passione (anche vulcanica, e – perché no? – sulfurea). Forze luciferine e arimaniche, luce e ombra. Presenze e assenze, forze ed eventi che affondano le radici nell’invisibile. Anche queste le aveva sperimentate tutte. Anche il secondo corpo, il doppio mefistofelico, quello che lo teneva imprigionato nei pregiudizi.
“Io sono il tuo nulla” sibilava Mefistofele. “Nel tuo nulla io voglio trovare il tutto” gridava Faust. Uomo plurale, uomo legione. In lui convivevano il lupo e l’agnello. Ma dalla legione, che più volte, malgré tout, aveva rischiato di affogare nella palude (e nella planitude), stava riemergendo, asciutto, il ‘legionario’. Il lupo aveva ingoiato l’agnello, ma questo, nutrendosi delle sue glandole – della sua ‘ghianda’, quella di Hillmann –, lo stava trasformando in leone.
Cammello, leone, fanciullo… (di nuovo! Ma questo ‘garzoncello’ era diverso, aveva combattuto contro il drago). Capì. Per l’ennesima volta (ma quando avrebbe preso la rincorsa definitiva per il ‘tuffo dal trampolino’? La piscina olimpionica era a un dipresso. Avevano però tolto, da dieci anni e passa, il trampolino…). C’era uno sviluppo lineare, predeterminato, ma da lui ‘colorato’. Non l’illimitato ciclico divenire, senza principio né fine, proprio di ogni Weltanschauung tradizionale, ma una visione rettilinea del tempo (in effetti, ondulatoria – con qualche improvvisa fuga indietro o in avanti. In Lorenzo Tradizione e Modernità s’intrecciavano, ma quest’ultima era sempre in fuga per l’innanzi). C’era una ‘ghianda’ sul suo ‘terreno’, la quale ‘voleva’, ‘doveva’, svilupparsi, nonostante i terreni circostanti, le erbe cattive, il loglio – famiglia, amici, società – e, soprattutto, malgrado lui stesso. E ora la ghianda era diventata una quercia. Robur. Robusta, tenace, capace di sopportare le tempeste. Radicata ma flessibile (ossimoricamente) come una canna. Canna al vento (dello Spirito).
Le sue radici. La passione infantile per l’India, per i suoi misteri, la sua spiritualità. E per la Grecia, la mitologia, i suoi dèi. La pulsione verso l’Olimpo e la passione per il Satyrion di Petronio. E, non ancora saturo, il suo infilarsi, sedicenne, negli antri oscuri dei cinema d’essai per vivere di Antonioni, Bergman, Buñuel. E per incontrare Pasolini e il suo angelo. Teorema risolto. Una via lattea di cui lui, Lorenzo, era, allora, solo un pulviscolo, un deserto rosso in cui, poi, sarebbe diventato un uomo blu.
Due fili, Oriente e Occidente, Apollo e Dioniso, Beatles e Rolling Stones, perennemente intrecciati. Due occhi (quello fisico – Eros – e quello spirituale – Theos) puntati sul traguardo. Specie ora che non era più miope né astigmatico (e nemmeno presbiteriano, per fare una battuta ‘loffia’. Era pentecostale, a modo suo, tra il loft e il soft, ma, in ogni caso, un po’ di Calvino permeava il suo spirito).
Occhi pieni di meraviglia. Il suo stupore notturno. Le sue città invisibili. Da Valdo a Marcovaldo. Oltre il guado, sino in oriente, cavalcando le tigri di Evola, danzando con Gurdjieff e Stella Kramrisch (all’indologa l’aveva introdotta proprio Galatea). Lorenzo raspava proprio nel fondo della notte. D’altronde, “il sapere è una farfalla notturna” diceva il don Juan di Castaneda, l’indio heidegerriano della foresta (la mariposa by night l’aveva catturata Furio Jesi, uno che aveva parlato pure di Evola, magari non troppo bene – ma per Lorenzo l’importante era parlarne…).
Il suo sognare, per ritrovarsi con le mani nel sogno. E manipolare la realtà. Tableau universale e aura microcosmica. Per vivere appieno (finalmente!) le sue passioni. Micro-Mega, Steiner (Rudof e George). Anche le donne. Megagalattiche (Arianna, Gaia, Galatea, per limitarsi alle prime lettere del suo alfabeto del desiderio). Galante ma svagato. Incostante, dimentico, talvolta sfocato. Nel suo terreno c’era, sì, il fuoco, ma il vento spesso lo spegneva.
Earth, wind and fire. Focherello, fuochino, fochetto. Ma questa volta il fuoco l’ebbe vinta. Anche perché non c’era nessun estintore.
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