domenica 13 dicembre 2009

SUNSET AT CAFÉ DEL MAR

Sunset @ café del mar


Cool day, cold day, coldplay… Nelle mie ioniche lande il freddo tarda a manifestarsi: anche il cool a onor del vero. Tutto sembra stagnante, eppure il fuoco cova sotto la cenere. L’acqua però tarda a convertirsi in vino: continuiamo ad attingere al pozzo della samaritana in attesa dell’incontro fatale – scorreranno allora fiumi d’acqua viva? Prima le nozze di Cana: dalle enormi giare vuote (oppure litri e litri di acqua stantia) al vino novello in tintinnanti calici. Poi Nicodemo: dalla letargica notte soporifera al liturgico giorno della nuova nascita (acqua tonica e frizzantimo a iosa); quindi la caliente samaritana pronta a lasciare la brocca alla fonte, visto che ha trovato dentro di sé la sorgente inesauribile…

Questa la mia confidante speranza, certezza mia personale in vista del roundabout dietro l’angolo. Ma anche la tua fidente speme (se sei lettore di questo blog al di là del bene e del male perciò, ‘divino’… e tu: divina): rileggeti tutti i post, spremili, centellinali, sorseggiali, ingoiali (tre pillole al dì), e a fine mese avrai deglutito tutto il pasto (i post, paté compreso). Quanto all’effetto: meglio dell’aloe vera… Come sottofondo, Hotel Costes e Café del mar (quanto meno, ma less is more). Come letture di contorno questi miei tralci (roba d’antan, un paio d’anni Jericoacoara, più di venti La domus padana scritto di presentazione al mio progetto per il concorso "La casa più bella del mondo" ma sempre up-to-date): mai d’intralcio, semmai pietra d’inciampo (non c’è cura migliore della scrittura – e lettura – creativa, ça va sans dire). Lo diceva lo stesso buon Jung (leggi il primo dei tre ‘tralci’), e io, da discepolo freelance (oltre ogni ossimoro e al riparo del sicomoro degli amori al café del mar), verso l’ambrosia ai samaritani di turno.

“…le parole agiscono solo perché trasmettono un senso o un significato; in ciò consiste la loro efficacia. Ma il ‘senso’ è qualcosa di spirituale. La si chiami pure ‘finzione’… Ma con una finzione noi agiamo in modo infinitamente più efficace che con preparati chimici (…) anzi agiamo perfino sul processo biochimico del corpo. Ora, sia che la finzione si produca in me sia che mi venga dall’esterno per mezzo della parola, essa può farmi sano o malato; le finzioni, le illusioni, le opinioni sono le cose più intangibili, più irreali che si possano immaginare, eppure da un punto di vista psicologico e perfino psicofisico sono le più efficaci.”


Jericoacoara mon amour


Guardiana del sogno, la brezza pomeridiana. My boo: Arianna, sospinta dai sospiri eterici di Alicia Keys, scavalcò flessuosa l’adone sdraiato sulla sabbia fine lambita dall’andirivieni di onde, tenue sospiro dell’oceano. La pelle brinata, e brunita, di Tomás raccoglieva golosa i gelosi raggi del sole tardo-invernale del Nordeste, caldi malgré tout. Rinviandoli rifratti e condensati a formare un’aura caleidoscopica, custode del suo corpo come in un sacro sarcofago. Uniche increspature, il vibrare della muscolatura tonica e il crogiolarsi sul bagnasciuga della spuma effervescente: lascivo invito al retrostante, desertico, Sertão a lasciarsi andare.

Brasile: legno di colore rosso. E rosso fuoco il colore (politico) e il calore di Arianna, specie quella ex ante. Il primo tuffo velvet underground dalle felpate sabbie di Praia das Fontes, nel febbraio del ’74: lo stesso anno, la stessa acquariana atmosfera dell’incontro con Lorenzo, solo un paio di mesi in anticipo.

“Quando soffia la brezza primaverile dell’amore ogni ramo, che non sia secco, si mette a danzare.” La poesia di Rumi, il bardo sufi che soffiava nel suo oceano interiore, aveva accompagnato il surfeggiare del suo cuore alla Prevert sulle onde dell’amore, prima cosmico, poi orgasmico. Un amore (quello pre-Lorenzo) sbocciato sulle dune di sabbia bianca e fiorito tra le scogliere e il labirinto stellare delle falesie.

Era la seconda storia importante di Arianna, una passione sbocciata sulle ceneri (e sbocconcellata sulla sabbia). La prima, invece, appassita, bocciata, scivolata sulla prima buccia di banana. Gialla ma annerita in più punti. Ma questo frutto della passione, passiflora sbucata dall’oceano, ben lontano da casa, era stato più profondo, eppure anch’esso fugace.

Nulla, però, in confronto alla terza, la liaison con Lorenzo. Questo amore così violento, così fragile, così tenero, così disperato. Bello come il giorno, cattivo come il tempo. quando il tempo è cattivo. Questo amore così vero, così bello, così felice, così gaio e così beffardo. Tremante di paura come un bambino al buio. E così sicuro di sé, come un uomo tranquillo nel cuore della notte. Questo amore che impauriva gli altri. Che li faceva parlare, che li faceva impallidire. Questo amore spiato. Perché noi lo spiavamo. Perseguitato ferito calpestato ucciso negato, dimenticato. Perché noi l’abbiamo perseguitato ferito calpestato ucciso negato, dimenticato. Questo amore tutto intero. Ancora così vivo. E tutto soleggiato...


La domus padana


Era l’alba, il momento più degno per l’incontro cui tanto aveva anelato.

Si avvicinò al locus: il genio aveva ghestalticamente ricomposto le mille tessere in quarant’anni gelosamente serbate.

I have a dream si trasfigurò: la sua domus padana era lì, del sito proserpina, eppur ecumenica.

Nell’aura dai colori non ancora accesi, il portico audace tentò l’approccio, baroccamente giocoso, novecentescamente solenne.

Incuriosito, come bambino quarant’anni addietro, scartò la pur breve scalinata, infilò la rampa di sinistra, sospinse l’uscio ed entrò: una luce soffice lo accolse mentre s’incamminava incerto verso qualcosa che gli appariva un curioso dialogare tra reale e virtuale.

Scartò la scala di sinistra e acquisì la tattile consistenza cromatica che l’imago autre offriva di sé sulla flessuosa parete di destra: eterna diatriba tra essere e non essere, o forse qualcosa di più semplice? Scelse la prima ipotesi e, baldanzosamente attratto da sons et lumiéres, s’affacciò nella cavea ellittica.

Improvviso s’elevò un urrà di benvenuto: elfi e umani lo avevano per quarant’anni atteso e ora pubblicamente lo ringraziavano.

Ripresosi dallo stupore, gli parve persino di riconoscere figure settecentesche, perfettamente a proprio agio, così come cantava quel loro dialetto padano, così antico, eppur così vicino al suo.

Improvvisamente, vicino al camino, tra le griffe spuntò il figlio che se n’era andato appena grande, forse rientrato nei ranghi dopo anni di romitaggio esistenziale.

Lasciò le sequenze che l’ultimo videoclip affastellava sulla parete e, sentendo il desiderio di allontanarsi un po’ da quel clamore, volle ritirarsi nella stanza appena discosta dall’ingresso.

La porta era socchiusa; la sospinse, e si meravigliò assai vedendo lei, che l’aveva abbandonato, e i suoi vecchi, in un unico abbraccio.

Salutò con familiarità, quasi non avesse subito il distacco, prese lei per la mano e salì le scale; ma tale era lo stordimento, più di quanto volesse far credere, che salì per la rampa trompe l’oeil, accompagnato da chissà quale genio.

Superato l’ultimo gradino, si affacciò dall’alto sulla cavea ancor echeggiante e la immaginò vuota: in essa avrebbe potuto sistemare per sé, per la moglie e per il figlio, l’ufficio dell’operatore immobile, eppur collegato col villaggio ecumenico.

Per la sua intimità, e per i messaggi col villaggio cosmico, pensò invece a una sala al piano superiore, dove, nelle notti stellate, la cupola, una volta aperta dalla magia dell’elettronica, gli avrebbe dischiuso tutti i luoghi delle sue eterotopie.

S’immerse in queste digressioni, la mano di lei ancora stretta, la cupola ancora dischiusa sullo spazio irreale che virtualmente si apre oltre la coscienza, quando un improvviso temporale gl’inseminò il capo: pensò allora che forse una più stabile copertura, magari colorata d’azzurro, avrebbe garantito la pace domestica.



Nessun commento: