lunedì 22 maggio 2017

GIOBBE: IL DRAMMA È DIO. Il Dio di Giobbe vs il Dio di Giacobbe.


GIOBBE: IL DRAMMA È DIO.
Il Dio di Giobbe vs il Dio di Giacobbe.

Il potere della routine… E quando si va fuori rotta, c’è chi si rompe il collo, ma c’è anche chi trova il collirio per vedere meglio, con occhi nuovi.
A proposito di “occhi nuovi”. Venerdì, sabato e domenica hanno torto il collo alla mia routine quotidiana: venerdì una riunione di un’associazione di cui faccio parte; sabato la discussione della mia tesi teologica (è un corso “breve” ma approfondito) e domenica, dulcis (e salato) in fundo, un matrimonio. Ma vi voglio accennare alla mia tesi.
Il protagonista: apparentemente Giobbe (e naturalmente ciascuno di noi in questa figura archetipica troverà una parentela o un aggancio), ma soprattutto Dio. L’argomento “Dio” parrà a molti campato in aria – e spesso lo è – ma Elohim (ecco uno delle mie solite assonanze o giochi di parole), o come lo volete chiamare, vocatus atque non vocatus Deus aderit*.  In ogni caso, Dio c’è: «chiamato o non chiamato, Dio sarà presente.»
Bene, penso che l’argomento, preso in God mode (modalità Dio) o in modalità analogica, aderisca allo spirito di questo blog e alla sensibilità dei suoi lettori, per cui ecco l’incipit della mia tesi (per approfondimenti chiamatemi).

Un libro che non abbia Dio, o l’assenza di Dio,
come protagonista clandestino, è privo d’interesse.
Nicolás Gómez Dávila

«Sì, l’ultimo atto di Dio sarà di consumarsi e sparire nella sua creazione: come il grande Eroe che esce dal talamo, che si espande nel creato per scomparire nell’abisso, dopo essersi fatto luminosità e calore anche della più umile delle sue creature.»**
Consuma e si consuma, appare e scompare… (come Gesù sulla via di Emmaus). Un Dio absconditus ma sempre presente: espansivo e sfuggente, scompare nell’abisso per poi ricomparire; tirato in ballo, non si sottrae alle sue responsabilità, ma si rivela nei fatti (fossero anche misfatti).
Realtà vicina, di cui abbiamo esperienza quotidiana – chiamato o non chiamato, creduto o non creduto; ma, soprattutto, Realtà Ultima: Essere, e non un essere, per dirla con Paul Tillich.
Ma chi è questo Dio, e di quale libro è protagonista, prima clandestino, poi cittadino a pieno titolo?
Facciamo esperienza del Divino in modi innumerevoli: dal timor panico, estatico, nel silenzio di una notte stellata, al canto di un uccello mattutino; dal Dio di gloria che tuona sul mare in tempesta al sottile suono di silenzio…***
Tutta la Bibbia, nelle sue molte voci, è impregnata di questa Essenza, ma è nei libri sapienziali**** che il Mistero esprime il suo lato “oscuro” (per noi) e apparentemente paradossale. E dei tre massi erratici – Giobbe, Qoèlet (Ecclesiaste), Cantico dei Cantici – voglio “fermare” il primo, lì dove il dramma è Dio.
«Io grido a te, ma tu non mi rispondi,
insisto, ma tu non mi dai retta.
Tu sei un duro avversario verso di me
e con la forza delle tue mani mi perseguiti»
(Gb 30,20-21)
Dalla “cornice” passiamo ora al “quadro”. Nel grido di Giobbe è condensato il “dramma umano”, sia esso espresso in modo palese o intimo, sia esso l’urlo disperato di un credente o il grido esasperato di un agnostico: quello di Giobbe è l’appello insistente a un Dio apparentemente assente, lontano, indifferente – come tante volte assente, lontano, indifferente è chi ci dovrebbe essere vicino.
Peggio ancora, Dio sembra a Giobbe un avversario crudele e spietato, sordo a ogni richiesta di aiuto.
Eppure, «è necessario che ogni persona passi attraverso questa fase di protesta e sperimenti la disperazione di sentirsi abbandonato dal Signore se desidera approdare all’incontro con lui pur vivendo ancora dolore, sofferenza, solitudine ed emarginazione.» Gianni Cappelletto, Giobbe. Incontrarsi con Dio nella sofferenza,

* Vocatus atque non vocatus Deus aderit”: Chiamato o non chiamato, Dio sarà presente. Questa iscrizione si trova incisa sopra la porta d’ingresso della casa che Carl Gustav Jung si fece costruire a Küsnacht, in Svizzera, vicino Zurigo. È tratta dagli “Adagia” di Erasmo (edizione del 1563), ma si rifà a un passo de “La Guerra del Peloponneso”, di Tucidide: è questa, infatti, la risposta che l’Oracolo di Delfi diede agli spartani, quando vennero a consultarlo prima di attaccare gli ateniesi.  Vocatus atque non vocatus Deus aderit”: Chiamato o non chiamato, Dio sarà presente.* Questa iscrizione si trova incisa sopra la porta d’ingresso della casa che Carl Gustav Jung si fece costruire a Küsnacht, in Svizzera, vicino Zurigo. È tratta dagli “Adagia” di Erasmo (edizione del 1563), ma si rifà a un passo de “La Guerra del Peloponneso”, di Tucidide: è questa, infatti, la risposta che l’Oracolo di Delfi diede agli spartani, quando vennero a consultarlo prima di attaccare gli ateniesi.
Cfr Gn 28,16 (Quando Giacobbe si svegliò dal sonno, disse: «Certo, il SIGNORE è in questo luogo e io non lo sapevo!»). Questa misteriosa esperienza onirica compendia un concetto che “colora” tutta la Bibbia: Dio è presente in cielo e sulla terra. Si tratta di una presenza implicita o esplicita («Isaia osa affermare: Io, il Signore, sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli che non mi invocavano.» Rm 10,20), avvertita o inavvertita: «Ecco: egli mi passa vicino e io non lo vedo; mi scivola accanto e non me ne accorgo» (Gb 9,11).
** David Maria Turoldo, Il dramma è Dio.
*** «Ecco il grande paradosso: Dio, infinito ed eterno, si adatta e penetra in questa realtà che è così fragile, sospesa, inconsistente. Ma ecco pure la grande intuizione: dov’è Dio? Nella folgore? Nel terremoto? Nel vento impetuoso? Dio è nel “mormorio di un vento leggero” o, traducendo più esattamente, Dio è una voce di silenzio sottile. Non un silenzio che è triste assenza di suoni, ma un silenzio in cui tutte le parole si compendiano.» (Gianfranco Ravasi, 2004).
«Nella Bibbia ebraica, nessun altro essere umano vien fatto oggetto di affermazioni tanto altisonanti come quelle riguardanti Giobbe, pronunciate addirittura da Dio […] Di nessun altro viene detto che la sua condotta e il suo destino divengono oggetto di discussione fra gli esseri celesti (1,6-12; 2,1-6). Per la loro gravità e il loro accumularsi, la sventura che lo coglie e le piaghe che gli vengono inflitte rappresentano il colmo di quanto ci si immagini possa accadere a un essere umano. Per l’asprezza dei lamenti che contengono, i suoi discorsi a Dio oltrepassano tutto ciò che altrove si può trovare nella Bibbia ebraica. E nessun altro viene degnato di una risposta divina paragonabile a quella dei grandi discorsi di Dio dei capp. dal 38 al 41.» (v. in Rolf Rendtorff, Teologia dell’Antico Testamento).
**** Il libro ha 42 capitoli, dei quali i primi due e la fine dell’ultimo scritti in prosa, il resto in poesia. Si tratta di un grande dramma, una lamentazione, un dibattimento processuale, un palcoscenico su cui vengono messi in scena i temi portanti dell’esistenza: il bene (e la prosperità), il male (e la sofferenza), la giustizia e l’ingiustizia, la natura di Dio e il Suo rapporto con l’uomo.
Nel dialogo coi suoi tre amici – e con Eliu, il predicatore di giustizia – che rappresentano le ragioni della sapienza tradizionale, Giobbe sostiene che la sofferenza del giusto costituisce una profonda ingiustizia, mentre i suoi amici lo considerano un peccatore giustamente punito. A Giobbe non rimane che appellarsi a Dio, a cui chiede conto del Suo comportamento ingiustificabile. Dio interviene, non per dare spiegazioni, ma per invitare Giobbe all’umiltà dinanzi a un problema che oltrepassa la capacità di comprensione dell’uomo. Alla fine Giobbe giunge alla vera conoscenza di Dio e, per quanto non gli sia restituito quanto perso, viene premiato in misura ancora maggiore rispetto alla sua condizione iniziale.
Nella Bibbia, dopo il Pentateuco e i libri “storici”, c’è un terzo blocco di libri, chiamati “sapienziali”, che include: Giobbe, Salmi, Proverbi, Qoèlet, Cantico dei Cantici, oltre ai deuterocanonici Sapienza e Siracide (Ecclesiastico).
Per “sapienza” s’intende, sia l’elementare buon senso – attento alle situazioni quotidiane, al problem solving e al raggiungimento degli obiettivi – sia la ricerca del senso profondo della realtà e delle finalità più nobili dell’esistenza.
Il libro dei Proverbi è, probabilmente, il più antico tra i testi sapienziali: oltre a contenere massime destinate alla formazione culturale e pratica, tratta della dottrina tradizionale sulla retribuzione: ogni azione ha la giusta sanzione; il bene fatto è remunerato con il premio e il male con il castigo. Ed è proprio questa dottrina a essere messa in crisi nel libro di Giobbe: Giobbe è un “giusto”, prima premiato e poi sottoposto a prove durissime.
Sulla stessa linea di Giobbe si pone il libro di Qoèlet, che mette in luce le molteplici contraddizioni dell’esistenza. Ma la sua critica della sapienza tradizionale, considerata fin troppo schematica e ottimista, risulta ancor più radicale (Ravasi considera Qoèlet “fratello di Giobbe”, ma a livello estremo). Pur senza risolvere i numerosi interrogativi che pone, Qoèlet (“colui che anima l’assemblea”), apparentemente agnostico, se non proprio ateo (tutto è vanità, tutto è nulla), alla fine si palesa un credente: infatti, se da un lato invita a godere degli aspetti positivi della vita – dato che tutto passa, tutto finisce, tutto fugge via – d’altro canto ricorda che ogni azione sarà giudicata da Dio.

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