giovedì 18 gennaio 2018

GOCCE DI PIOGGIA A JERICOACOARA (incipit)

GOCCE DI PIOGGIA A JERICOACOARA
incipit

È stato definito: “romanzo-rapsodia, fervido di vita e voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore … vorticoso nel suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e trepidazione, ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura vivace, geniale, estetizzante, ma tutt'altro che décadent, capace di affratellare Policleto e i Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie, dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da giocoliere della parola e da funambolo della nuance … Romanzo dallo stile unico, affilato e morbido, con scrittura vivacegeniale ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie in connessione tra di loro. Uno squarcio sulla cortina che separa il mondo reale da quello del “sogno”. Uno “sfarfalleggiante” battito d’ali che può trasformarsi in un concerto polifonico dagli esiti non ancora immaginabili.”
Di questo mio romanzo (vincitore del Premio Letterario Emily Dickinson 2013), dallo “stile” di scrittura unico (cosi è se vi pare), ecco l’incipit. Nei prossimi post vi inonderò di ampi stralci (d’altronde, una delle caratteristiche del romanzo, di circa 560 pagine…, è quella di offrire, anche se aperto a caso, sempre ampi spazi, prospettive infinite. definite e indefinite…).

«Ma quanto sei strana!»
Il bronzeo addetto alla piscina irruppe da chissà quale anfratto, fiondandosi tra le sdraio e gli ombrelloni strapazzati dalla pioggia con la sfrontatezza di chi vuol battere sul tempo un sole paonazzo e pieno di voglie tanto improvvise quanto prevedibili. Poi il bay-watch prestato alla terraferma cambiò di colpo marcia e, ciondolando – caracollando – tra le pozzanghere, guadagnò il bordo-vasca col piglio di chi getta l’amo per adescare uno squalo.
L’occhio umido (non solo di pioggia) prese a dardeggiare il fluttuante contorno sinuoso che dava un senso all’asettico rettangolo d’acqua, col fermo proposito di colpire il bersaglio mobile al primo colpo.
«Solo la pioggia o la luna riescono a fare il miracolo. Solo loro riescono a farti tuffare...»
Offuscando le parole-esca e mettendo a tacere gli ultimi vagiti meteo, il sorriso (invocato) di lei fece capolino tra le increspature e il cloro, complice e promettente. Nessun indizio, niente che facesse preludere all’epilogo politicamente scorretto. Non la gimcana di labbra sulla pelle che il bagnino aveva messo in conto tra i sogni nel cassetto (insieme a qualche tuffo con la bella naiade), ma solo una risposta da brivido blu:
«Ho il cuore pieno di ceneri e di scorza di limone. Andrò solo dentro me stessa. Mi troverai sempre là...»
Scagliato il dardo al curaro sul san Sebastiano di turno (il bagnino), paga dell’effetto sorpresa, la bionda ondina riguadagnò il bordo-piscina. Salì come da videoclip la scaletta cromata, schioccò un solare ‘ciao!’ da trailer al gallo cedrone dall’ala spezzata e, sfioratane l’epidermide bronzea (di colpo sbiancata), gli lasciò – sapore di sale – il chimerico assaggio di quel suo tatuaggio sfarfalleggiante sulla pelle bagnata.
Gaia era fatta così: non solo tattoo ma anche taboo. Una vita esaltata da brevi ma intensi deliri, la magia di lunghi silenzi bruscamente interrotti da taglienti ossimori, paradossi, voli pindarici, esternazioni frappant. E se qualcuno (non pochi) sostava, rapito, davanti a quest’opera d’arte (e non da tre soldi...) – un taglio di Fontana sulla tela bianca della vita – veniva immancabilmente colpito da un’inattesa sindrome di Stendhal. 
Gaia o dell’avventura dell’esistenza, un ossimoro vivente più che un paradosso. Tutto questo si sarebbe potuto dire – a posteriori – di Gaia (anche il nome). Ma ormai il fugace biondo oggetto del desiderio era fuori campo e a Lorenzo – il terzo silenzioso incomodo (convitato di pietra, nel vero senso del termine) – non rimase che rituffarsi nelle pagine appena lambite da una di quelle piogge lampo settembrine che il Gargano riservava ai suoi ultimi ospiti.
Il turbine (anche sensoriale) era ormai passato, senza lasciare – così il buon Lorenzo pensava – tracce: lui di Gaia conosceva – e gl’importava – solo la Scienza…

Al riparo, raccogliticcio, di uno dei pochi ombrelloni rimasti aperti, l’unico ‘abitato’, Lorenzo riprese la lettura, subito abortita: a braccetto col sole, ritornato master & commander del cielo, come un hobbit da pagina sei sbucò, impertinente, l’ossimoro, questo ‘carneade’ apparentemente fuori luogo in quel villaggio-vacanze così poco manzoniano (e neppure tanto tolkieniano).
Queste paginette sfiorate dal pianto celeste erano la sua ultima conquista (libresca) – il tempo degli amori per Il Signore degli Anelli sembrava appartenere a un altro eone – e a Lorenzo non sembrò affatto un caso che il buon Raimon Panikkar – il teologo di frontiera (non solo Paul Tillich) cui stava facendo il filo tra un tuffo e l’altro – esordisse con quello strano termine, così calzante nell’occasione, per la bella del villaggio.
Sì, ossimoro, oxymoron, questo stravagante matrimonio tra la bella oxys (affilata, appuntita e penetrante) e la bestia moros (ottusa, senza punta, molle, sciocca, folle...). Armonia fra i contrari, coincidenza degli opposti. Palintropia, concordia discors, polemos eracliteo, processo e stasi. In attesa della palingenesi.
E tale, almeno da quel fugace mix di figura, situazione ed insinuante esternazione, gli era subito parsa la ragazza: affilata-spuntita nella sua follia penetrante, un punteruolo nella stupidità altrui. Insomma, la punta che perfora ciò che è molle
In quel momento Lorenzo comprese anche come fosse facile passare da L’esperienza di Dio (il libro dell’ossimoro) all’esperienza di Gaia (dall’esperienza del cielo a quella della terra...). E così, rapito da questi volteggi della fantasia, ormai solo sul campo – il prato più o meno all’inglese che delimitava la piscina – e sospinto da chissà quale daimon, non trovò di meglio che tuffarsi nell’acqua solitaria ma ancora pulsante di vita: se al bagnino – ormai svanito nel nulla – la ragazza aveva prodotto l’effetto di uno shock termico, per lui, semplice e involontario spettatore del duetto, fu invece una salutare botta di vita (fosse stato Tinto Brass, sarebbe subito passato alla ‘botta d’allegria’…).
Anestetizzato da questa sua sobria ebbrezza – l’ossimoro qui è d’obbligo – Lorenzo cominciò a nuotare, ora a stile libero, ora a rana, addirittura a farfalla, se non proprio a delfino (memore del luogo), incurante dell’acqua gelida, indifferente.
Bracciata dopo bracciata, il suo corpo da algido (soprattutto nei sentimenti) prese a intiepidirsi, sciogliersi, rigenerarsi, mentre, accompagnati da ribollii e sfrigolii, risalivano a galla i sedimenti della misteriosa presenza di Gaia e l’eco delle sue parole sibilline. Così incomprensibili e disarmanti per il bagnino, ma così significative e pregnanti per lui: che c’entrava quel barbaglio di contro-cultura nella garganica Pugnochiuso delle vacanze politically correct? Che ci azzeccava?
Chi era quella ragazza così out? Una neo-esistenzialista post-histoire in vacanza single? Cascami di New Age tra barlumi di Next Age? Scampoli del Grande Fratello? Una velina in uscita libera? Una sciampista, una stagista, una staffista? Una veltroniana free-lance? (con un Veltroni ormai infeltrito…). Infin che ’l veltro verrà… Il cervello di Lorenzo fumava nell’acqua diaccia.
Fatto è che le sue ‘vasche’ furono più piacevoli del solito. Rilassanti, da training autogeno, quasi ipnotiche. Da ipnosi regressiva: ripercorse a grandi balzi la sua varia quotidianità, dai picchi (rari) delle esperienze delle vette – era da poco scivolato giù dalla ‘piramide’ di Maslow e vedeva tutto nero – alle depressioni (varie) della banalità del suo Sitz im Leben, il suo ambiente vitale.
Come un film a ritroso – di quelli che si dice veda chi è in punto di morte, quando la corda d’argento sta per essere tranciata –, davanti a lui cominciarono a scorrere veloci i fotogrammi delle tappe più significative della sua vita (e lui non era nel cast: la riflessione di Woody Allen gli calzava a pennello – ma c’era un buco nei fantasmini di Lorenzo…).
E così, tra un flash-back e l’altro, cominciò a togliersi le scaglie di dosso: in fin dei conti, non era poi tanto meno stravagante della sfarfalleggiante fanciulla! È vero, il ruolo sociale, i condizionamenti ambientali e i chiaroscuri del carattere ne avevano spesso frenato la libera espressione, ne ostruivano il libero sgorgare, ma non amava forse, anch’egli (alla faccia dei suoi invisibili ‘cinquanta’), il bagno sotto la pioggia? Non gigzagava, anche lui – malgré gli anta (ma solo quando i cascami di tempo libero glielo consentivano) , tra Mtv e zingarate? Il sapere è una farfalla notturna…
In ogni caso – e qui le sue bracciate cominciarono a perdere colpi –, più della ragassa in sé (che pur valeva una messa), ciò che intrigava il nostro era la sua personalità essenziale, messa a nudo da quell’esternazione fuori dal coro della banalità quotidiana. Un coming out (o un outing? – in fondo era stato il bagnino a ‘costringerla’ a rivelarsi) davvero inaspettato quello dell’ospite (non certo scema) del villaggio (Lorenzo, essendone un habitué, si riteneva quasi il padrone di casa).
E poi... quell’uscita di scena, cui difficilmente avrebbe fatto seguito un secondo atto. Conclusione: la ragazza era piuttosto in alto nelle sfere…

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