martedì 16 gennaio 2018

SHAPE SHAKE SHARK… SHOT!


SHAPE SHAKE SHARK… SHOT!

“We shape our cities and thereafter they shape us.” (Churchill). Sì, le città ci formano e noi le diamo forma… Ma loro cambiano ancor più velocemente delle nostre emozioni: “la forme d'une ville change plus vite …. que le cœur d’un mortel” (Baudelaire).
Sì, diamo forma alle nostre città, ai nostri quartieri, alle nostre case, alle nostre ‘cose’… e poi loro danno forma a noi, ci conformano, ci deformano.
Form follows fiasco. Sì, è dal nostro insuccesso che si (de)genera la forma e i contenuti della nostra vita. Spesso presunti insuccessi (un fallimento non significa il fallimento: ogni difficoltà è un’opportunitàrepetita iuvant) ci condizionano. E come ormai, dopo Hillman (e non solo), tutti (o quasi) sanno: non è scavando nel pozzo del passato che si ‘guarisce’ e si inizia a ‘volare’. Dal pozzo si tira fuori solo la morte… Se si vuole la vita bisogna ‘cambiare canale’.
“Le città sono stati d’animo, stati emotivi, umori.” Con o senza John Steinbeck e Saul Bellow. Città da abbandonare, ma per andare dove? “When you leave New York you ain’t going nowhere.” Eppure, “Living in New York is never easy” (e nemmeno leaving). Vivi e lascia vivere. Da svegli, dormendo o in fase rem, New York è assolutamente da vivere, fosse anche “vedi New York e poi muori...”
Reading from New York. Città biblica. Come la Bibbia: puoi rileggerla infinite volte e ogni volta scopri un senso nuovo. Settanta sensi. Città fucina, laboratorio di un futuro charming. E il presente? Il sole che sbanda sui muri di vetro, le pareti di mattoni che si fanno rubizze… New York, città di rubino, cristallo e porcellana (cinese). Paradiso, inferno, purgatorio… (il limbo era passato di moda). Chiasso generale tra i silenzi individuali. La musica? From the beginning, di Emerson, Lake e Palmer. Così sentiva (come sintesi) il ‘suono’ della metropoli in quel particolare stato d’animo (alla Emerson: non il pop-singer, ma Ralph Waldo, sempre lui, il filosofo del ‘divenire’, quello per cui “le preghiere degli uomini sono una malattia della volontà e i credi una malattia dell’intelletto”). Sì, questo il suo preludio nuiorchese. Un po’ alba di Pugnochiuso un po’ notti al Cairo. Una malattia e una preghiera. Ma lui ora era in convalescenza. E una volta guarito, avrebbe vissuto d’altro: di architettura, forse di preghiera…
(tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara).
Architettura, preghiera… Il sole che sbanda sui muri, chiasso generale tra silenzi individuali… L’ambiente è sia fondo indefinito e informe”, spazio ‘vuoto’ da ‘riempire’ (con elementi ‘autentici’), sia “ente pervaso da forze generate dagli oggetti” interagenti con quelle prodotte dall’ambiente. E tra lo spazio dei pieni e dei vuoti ci sono gli interspazi, gli ‘spazi negativi’. E sono questi ultimi – l’’inframondo’ (mitwelt) – a generare il ‘pattern’ totale, ossia l'organizzazione funzionale della città e dell’uomo. L’holos, il tutto, superiore alla somma delle parti (almeno nella città 'organica'), è in grado di soddisfare all’obiettivo ‘città’ o ‘uomo’.
La città e l’uomo: il macro e il micro (supra e infra. Talvolta, infradito…), la forma e la funzione che, unite, costituiscono l’organismo ‘città’ e l’organismo ‘uomo’.
La forme d’une ville… Sì, il cuore della città cambia più velocemente di quello dell’uomo. Le città mutano, invecchiano, fanno le grinze, subiscono amputazioni, mettono su pancia (e protesi), cercano un’improbabile eterna giovinezza sfoggiando vestiti sgargianti, all’ultima moda, trendy, trash… Qui e là qualche punturina, ma sì… botox a volontà, squarci e ricuciture, omogeneizzazioni, outing, yoghurt, transgenderizzazioni: sì, le città bene o male cambiano (o ci provano), ma lui (o lei…), il cuore dell’uomo, resta lo stesso. Capace, ora come allora, di slanci vitali e di scivolate suicide (e sudice). Eppur ancora fermo all’Adamo della mela e al Caino dei fagiolini. E non solo il sempre-adamo continua a mangiare la mela, ma si è ormai identificato con essa: è diventato un oggetto al servizio degli oggetti. Sempre più ci identifichiamo con e nelle cose, continuamente ci abbassiamo al loro livello e …scivoliamo (su di esse? su di noi? È lo stesso: ormai siamo tutt’uno con le cose. Siamo diventati una protesi del cellulare…). Malgré tout, c’è ancora vita sulla terra!
Sì, Deo gratias (gratia sine gratis gratia non est...), c’è sempre più chi, dopo l’ubriacatura dell’Italia da bere, vuole tornare all’Itaca da centellinare (siamo o non siamo entrati nell’Era dello Spirito?). Sì, c'è chi si ribella... e qui viene il bello: i ribelli non sono più d’un solo colore (ma non lo sono mai stati: c’era il Che – Guevara – e c’era Jünger. E poi il Che batte anche a destra...). Insomma, c'è chi vuole disidentificarsi, uscire dalla platitude. Sì, in tempi di omologazione, anche eterologa, c’è chi vuole uscire dal coro, vuole fare outing (non che nel passato ci fossero più voci dissonanti: sì, c’era la pizzica, ma solo per i tarantolati; gli altri erano delle comuni lucertole. Poi c’è stato Re lucertola – Jim Morrison – ma non è che le cose siano andate meglio…). Ma per fare coming out occorre aprire la porta. E per i più timidi… passare sotto la soglia.
Per volare in alto l’ala si deve abbassare… Ultimamente forse abbiamo alzato troppo le ali… E come si sa, un battito d’ali ad Avetrana ha scatenato un cataclisma mediatico da Bressanone a Milazzo. Ma non è stato un battito d’ali: solo battiti (prima battiti live, poi ‘battipanni’: battute, botte, solo battiti… poi sempre meno, poi più nulla…).
Le ali si sono spezzate, sono state mozzate. De profundis te clamo… In cantina, nel pozzo, in the cut. Cunto de li cunti, è possibile uscire dal fossato? O cambiare canale?
Sì, siamo nell’epoca del ‘tutto è possibile’. Basta toccare il fondo (se non l’hai fatto, datti tu l’ultima spinta, ma poi, con tutta la rabbia possibile, alla Osborne, devi ri-decidere, devi risalire
Di tecniche per uscire dal pozzo ce ne sono tante, ma non ce le insegnano: a tal proposito, visto che ne parlo spesso (e qui passo dalla città agli stati d'animo: ma siamo lì...), la PNL ha potenzialità eccezionali: tecniche come quelle (pardon per l’argot) dell’ancoraggio, dello swish, dello squash, del reframing, della time-line, danno all’individuo ‘depotenziato’ (e chi in un certo senso non lo è?) quell’ego-drive capace di farlo catapultare dal girone ‘infernale’ al cosmodromo ‘edenico’ (un odeon in cui non si è solo spettatori, ma attori e registi).
Sono arrivato al pit-stop. Al prossimo post i prossimi step. Stop and go. La penna continua a tirare... Uso la scrittura per sopravvivermi… (per dirla con Corona. Non Fabrizio – e non lo dico per invidia, del Fabri – ma Mauro: sì, Mauro Corona, quello del bosco antico). E soprattutto, per far di me stesso fiamma… (senza far la fine del sommo Michelstaedter, né del ‘minimo’ zi’ Miché).

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