LIBRO DEI
LIBRI
Ex libris
Libri ‘inchiodati’? Jamais! Books, booklets, penguin classics, livres de poche, pocket,
tascabili, purché libri… (anche e-books. Ammazza… – amazon – che bibliofilo!).
Li compulsava, slinguava, odorava, sniffava e poi vi ci si tuffava. Anche a occhi chiusi. Lorenzo era uno junkie, un drogato (di fogli stampati, non di cartine), un book-addicted: aveva più d’una scimmia sulla spalla (e gli facevano pure le linguacce). A proposito, pour parler: Lorenzo, il bookworm (ma anche movieworm), fluiva in english, galleggiava in tedesco – aveva fatto uno stage nazi-runico –, dava delle belle unghiate french. E poi ogni tanto stillava, specie quando scriveva, gocce d’umor pagano dall’Olimpo e dai Sette Colli; un po’ di ‘vento divino’ dal Sinai per la par condicio e, sursum corda, sciacqui nel Gange).
Li compulsava, slinguava, odorava, sniffava e poi vi ci si tuffava. Anche a occhi chiusi. Lorenzo era uno junkie, un drogato (di fogli stampati, non di cartine), un book-addicted: aveva più d’una scimmia sulla spalla (e gli facevano pure le linguacce). A proposito, pour parler: Lorenzo, il bookworm (ma anche movieworm), fluiva in english, galleggiava in tedesco – aveva fatto uno stage nazi-runico –, dava delle belle unghiate french. E poi ogni tanto stillava, specie quando scriveva, gocce d’umor pagano dall’Olimpo e dai Sette Colli; un po’ di ‘vento divino’ dal Sinai per la par condicio e, sursum corda, sciacqui nel Gange).
Croce e delizia. Le parole schiodate dal mio libro (sempre in attesa di pubblicazione) mi inchiodano a
Lorenzo (il mio alter-ego di carta, un ‘ribelle’ sempre meno virtuale). Lui il
crociato, io la pietra filosofale; loro, gli ipsissima verba, il martello: il triangolo perfetto per incidere
nella realtà (e non solo per ballare
sul mondo).
Diapason, flauto, arpa, siringa… Ago
che inietta vita: senza strumenti musica
nuda la parola produce.
Fatti e
misfatti. Verba volant (et volunt). Sì, il linguaggio che si fa parola, la
parola che si fa atto: “nessuna cosa è dove la parola manca” – questo
uno dei motti preferiti di Galatea (soffiato a Heidegger, ma da lui stillato,
con ‘cura’, da ‘Das Wort’, poesia di Stefan George – lingua vergine, ‘virgo
mater’ del sacro cerchio). La parola che ‘nomina’ le cose, le contrassegna, le
crea. “Basta la parola…”
Parola coessenziale all’azione. Parola in movimento, in divenire, in
estasi. ‘Versi intessuti’, ‘carmi circolari’, parola in cammino. Parola ‘attiva’.
Più che ‘parola’, ‘verbo’, azione che
si attende una re-azione. Action
now.
Parola ‘dinamica’, scoppiettante. Parola che grida quando più tace.
Parola che canta, sussurra, piange. Nella parola balugina la spiritualità
dell’anima. E questa si fa corpo. Per accoppiarsi e poi scoppiare. È la parola che dà sostanza, essere, alla
‘res’. Logos lex: la parola è legge. Logos rex: la parola è re, anzi ‘regina’,
e di questo ‘logos’ Galatea era diventata padrona.
‘Suona’
la parola la malvestita realtà… Parolibere ancheggianti, ossimori frenati o rutilanti, specchi
autoriflettentesi, un po’ narcisi un po’ Eco.
Un romanzo-carillon il mio – i fatti come lame rotanti, i pensieri come
trottole vorticose, e in cima a ciascuna di esse le parole come dervisci tournants sulla capocchia di uno spillo.
Io (il nome? Non serve), servo
della parola. E Lorenzo, mio schiavo (e
poi Galatea, la matrona – a seguire famuli e ancillae in ordine sparso). Romanzo
à la carte: antipasto, primo e secondo della mia vita (ero alla frutta).
Lorenzo audioslave. Gli piaceva
la musica gospel, battere i chiodi col martello e parlare in lingue.
Non era la prima volta che sconfinava in lande straniere…
Verba
volant (come stringhe cosmiche), scripta manent (come quark plutonici). Macchie uraniche d’inchiostro sotto vetro (il
display del computer), esprit
irenico, platonico, ironico, forse iranico (Zarathustra?). Particelle
elementari, staccatesi
da un magma incandescente e filanti senza direzione e senso. Pensieri e parole coagulatesi in stringhe
cosmiche (anche comiche), corde vibranti del mio pluriverso (canone inverso): stringhe aperte sull’universo per connettere le estremità di
pensieri a folle, stringhe chiuse sull’introverso
per accalappiare idee occhieggianti dall’ultramondo (il mio castello interiore,
l’empireo, la Sophia divina, la Scienza gaia?). Lorenzo, the fool on the hill.
Thriller… Con quanti denti le parole mi
mordevano! Ma ciò che
più incidevano nel romanzo erano i silenzi: “sguardi
senza patria quaggiù, silenzi più remoti dell’uranico vento…” Nondimeno,
erano le parole a de-cidere, ad agire, a in-cidere sui miei sentimenti. Sono loro – verba,
logoi, loghia, rhemata – a configurare e a dare espressione alla mia necessità interiore (in attesa di trasfigurarla, di trovare la mia
‘dimensione’, la mia necessità più alta –
insomma, diventare ciò che sono).
Vir
bonus dicendi peritus? Più
che altro, sono un malato – quasi
allo stadio terminale – di parole, specie di quelle fatte di silenzio (quanto
al bonus ne avrei fatto volentieri a
meno. Non voglio sconti, figuriamoci regali…). Parole silenti. (“Chi parla non
conosce. Chi conosce non parla.” È il Tao Te Ching a dirlo). Dal sottile rumore di
silenzio al rombo del tuono (il ‘ruggito’ della scrittura – e poi, come
graffia…): come Ildegarda la mistica, sapevo scrutare le viscere della memoria
e il ventre dell’universo. E col forcipe
dello spirito avevo reciso le sbarre dell’anima. Il terribile era avvenuto.
Thor. Parole tonanti o sussurranti, fluenti a cascata (mai
stagnanti), corpose ed eteriche, arcaiche ed estatiche (extase à deux), estetizzanti, escatologiche e frivole, nouveaux o déjà vu, sempre in bilico sul borderline tra greve e sublime. Mi
denotavano, connotavano, erano insieme referend
e symbol, signifié e signifiant, langue e parole, “suono su una faccia,
e pensiero sull’altra”. E lasciavano il segno: “Guance arrossate, traccia inequivocabile di
un contropelo troppo duro...” Speravo solo che incidessero nella realtà, fossero spade a
doppio taglio, non solo spilli per inc… mosche (e per decenza non
diciamo di più, direbbe il siculo Buttafuoco, dimentico del franco
Céline).
“La
parola è un tremendo pericolo, soprattutto per chi l’adopera, ed è scritto che
di ciascuna dovremo render conto.” Sì, ero un topo di biblioteca (ultima scoperta, Cristina Campo –
nella mia anima, scampata agli spaventi del giorno, già da tempo albeggiavano i
suoi silenzi remoti trafitti dai dardi verso il cielo); e ora, col mouse,
anche scrittore (ancora in vitro, leggermente scheggiato). Echeggiante
(all’inizio, boccheggiante. Nessuna Eco, solo
un sottile suono di silenzio…). Un
po’ randagio un po’ domestico (badante?). Eppure, voglio essere selvaggio: voglio scagliare come dardo la mia
necessitante volontà e ferire l’orecchio di Dio! Voglio inferire, infierire…
(Dal mio inedito Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?)
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