mercoledì 16 febbraio 2022

BOSSA NOVA - Gocce di pioggia a Jericoacoara



BOSSA NOVA

 

Now the party’s over …
Avalon …
When the samba takes you …
Avalon …
Would you have me dancing …

 

     Way Brasil l’aveva sbarcata a Fortaleza. Scorribandata poi in pullman – con Bryan Ferry, tra gli altri, a carezzarla dall’iPod (in questo era meno vintage di Lorenzo) – sino a Jericoacoara, la location – localizaçao – della sua vacation da new-single (la sua, temporanea, vocazione). Ed erano già (o appena) passati tre giorni dal suo arrivo a ‘Jeri’. Senza limiti di tempo: si era concessa un riposo sabbatico, avrebbe oziato quel tanto che le avrebbero concesso le sue risorse (psico-finanziarie) e la sua voglia di vita. Non solo il kairòs, il momento giusto per una svolta decisiva (e decisa), ma anche uno dei periodi migliori, dal punto di vista climatico, per una vacanza ‘strappo’ (e pure il meteo di Arianna, dopo bore e burrasche, volgeva al meglio). E strip: anche il costo del volo – cinquecento euro, all’ingrosso – accettabile. Solo andata, poi... surprise (solamente l’alloggio, per due settimane, era stato prenotato, via internet – il resto... mancia).

     Milano-Fortaleza: solo andata. Nove ore. Il ritorno: prima o poi. Dopo novantanovevoltenove ore. E ora? Souplesse. Unica certezza: le infradito havaianas, come allora (in attesa di Bora Bora). Sandali bipartisan, ciabattine da single all’arrembaggio. Ma a Fortaleza sneakers ai piedi (un bel quarantuno, a bilanciare il metro e settantasette da ex mannequin di quando c’era la Barzini): i tre giorni di sightseeing e nightlife lo imponevano, specie durante l’improvvisato e improvviso mini-jogging sul lungomare (confusa, ma svettante, tra uno stuolo di garotas locali, donne-piranha di tutto rispetto, e bum bum).

     Ma le infradito tornavano poi, immancabilmente, a baciare i piedi di Arianna (e l’Avenida Beira Mar) quando lei spiaggiava a Meireles, la praia che più l’attizzava (anche di abbronzatura), o a praia do Nautico e Mucuripe; oppure quando si dava alla movida notturna, tra Pirata, Kapital, Café del Mar e vai…, con ai piedi ancora tracce (l’avrebbero potuto rilevare gli analisti-detective di CSI) dei chicchi di sabbia della Praia de Iracema. O della Praia do Futuro, suo ultimo tuffo a Fortaleza (anche se le abbuffate di anguria arraffata alle barracas avrebbero consigliato maggior prudenza). Sarebbe diventata anche lei una donna-piranha?

     ”Poi? Il bisogno di andare, di andare dovunque, di traversare lo spazio, di respirare nel vento…” Fuoco dannunziano. Falò e forrò. Furono tre giorni vissuti intensamente. Anche dal punto di vista culinario (aveva finalmente smesso la dieta forzata, nervosa, degli ultimi, anoressici, mesi): tiragostos (antipasti caldi di pesce, formaggio e verdura), aragoste acqua e sale spolpate direttamente dalla carcassa, peixada (zuppa di pesce e verdure), peixe a delícia (preparato con latte di cocco), churrasco, piranha, senza trascurare la caranguejada – grossi granchi bolliti. Per poi finire a tarallucci e vino, con manioca e cocco grattugiato, papaya, maracujá, avocado e sorsate di Sapotì, Acerola, Goiaba, Graviola, Cajà (e Sunset at Café del Mar e Hotel Costes playlist a tutto chill-out negli auricolari sempre più hot). Di tutto un po’… Quasi a voler scaricare tutto l’arretrato degli ultimi mesi, casa e studio. 

     E sì che lei era abituata a periodi ‘borghesi’ tra una follia e l’altra, ma, dopo lo ski-pass di capodanno, tra Sestriere e Bardonecchia, era calato il silenzio. Di ghiaccio, di tomba. Malgrado gli sci ai piedi. E un solo lavoro d’un certo interesse a cui tener bordone, elitario ma aleatorio: un progetto-concorso, portato avanti rapidamente, ma senza entusiasmo, tra copia e incolla. E per conto proprio, senza l’apporto di Lorenzo, che invece sembrava tornato in gran forma (fino a giugno, poi il crollo), almeno dal punto di vista professionale (anche lui indaffarato, per quanto ne sapeva, a dar gli ultimi colpi di mano a un progetto: di cosa? Non gliene importava punto…). Ma adesso il loro progetto di vita in comune sembrava arenatosi (dal punto di vista professionale, tra i due, c’era stato il black-out già dall’inizio dell’anno). A un punto morto; anzi, irrimediabilmente fallito: una parentesi chiusa.

     Tonda o quadra, Fortaleza fu comunque solo una prima parentesi, con tre punti di sospensione, ma servì a rinvigorire Arianna, nell’animo e nello spirito. A farla uscire dal mar morto. Anche l’assopito esprit architectural ebbe un soprassalto: sarà stata l’atmosfera, lo zeit-geist, il genius loci (sia pur ammorbato, a folate, dagli untuosi ‘cercabambine’ della Fortaleza by night – ma Arianna, sia pur ancora ‘fresca’, non era frutto di stagione).

     E nel nuovo mondo mutò pure la sua Weltanschauung. Rifiorì, in poche ore, anche il corpo. Corpo ludico, impudico (non era forse nella città – una delle tante… – del peccato?), pronto a nuove visioni, a nuovi giochi: forrò sulla spiaggia, sfottò sulle avenidas, milk and shake sui dance-floor, con o senza gringos tra i piedi o sulla pelle. Abolizione di ogni diversità e di ogni luogo comune. La libertà che sconfiggeva ogni schiavitù. Il passaggio dalla morte alla vita, piena, buffa, arlecchina.

 

     Abbuffatasi di polpette di vita (e di carne, nella churrascheria consigliatale da un Joao Batista locale – che spianava la strada al bel Tomás), Arianna, gringo-hunter per caso, voltò le spalle alla Sodoma sons et lumières, alle sue barracas de praia e, filo-filo mare (un sea-front di almeno cinque chilometri toda vida), vide sfilare, a una a una, le jangadas profilate di bianco, verde e arancio (niente paura: se le sarebbe ritrovate in seguito). Puntò poi dritto verso nord, senza girarsi indietro. Fortaleza, la Rimini del Brasile (ma anche un po’ Miami vice), e il suo caos da capital de la alegría l’avevano lasciata di sale, ma per lei, tutto pepe, il paradiso non poteva attendere.

     Ed eccola ora qui, a Jericoacoara, poco più di trecento km a nord, nel magico scenario del Parque Nacional. Villaggio di pescatori, nel cuore della Golden Coast brasiliana. Terra da luz, Eldorado luccicante di spiagge d’incontaminata bellezza e di lagune cristalline, spruzzata qui e là dal seltz delle acque termali. Con persino un deserto che si gettava, senza vergogna (e vigogna), nelle onde dell’oceano! Terra (semi)vergine: fino a ventina d’anni prima, se non aveva conosciuto uomo, di sicuro non era stata penetrata da strade, né sedotta da telefoni o elettricità (una cittadina quasi amish – d’altronde, in Brasile ci sono colonie di mennoniti). Figurati, una che all’uso del denaro preferiva il baratto!

      Arianna non poté far a meno di cedere alla lusinga della saudade hippy and flower e ripiombò sul materasso dei ricordi da demi-vierge (o giù di lì). In memoria dei suoi sedici anni, fece due soste lungo il tragitto (o meglio, fu il pullman a farle: erano, per felice coincidenza, previste): la prima, più breve, a Cumbuco, poco più di una ventina di chilometri da Fortaleza, una sorta di oasi sahariana, tutta laghetti e palme di cocco. E con un’incantevole spiaggia a dune costiere che s’insinua nell’entroterra, sulle quali rifare (con la memoria) corse pazze in dune-buggy o, sempre da brivido, sui toboga in legno, con deep impact finale con l’acqua della laguna (lo jet-ski nelle acque di Parnamirin è roba da schianto, per non parlare del kitesurf – wave o speed, non importa – fino a Barra do Cauipe, laguna in cui annegare, felici di non saper nuotare).

     E poi – la seconda tappa – un ricordo doc: Canoa Quebrada, il piccolo villaggio in riva al mare dei suoi anni in fiore, tutta jangadas e merletti (sia del paesaggio sia quelli trapuntati dalle mogli dei pescatori): gli scogli ancora rosseggianti, la lunga spiaggia sempre corteggiata allo spasimo dall’alta falesia di sabbia (e lei, ora come allora, dai maschietti della sua tribù, malgré l’Evan di turno – e di turn-over…).

 

     Paura di volare? No. Tropico del Cancro? Sì. “Tutto ritorna, fluido, affettuoso, casto, maturo, mentre passiamo veloci uno vicino all’altro…” L’eterno ritorno (ma sempre diverso): a distanza di trentun anni sugli stessi lidi, con le stesse emozioni. Alla Whitman. Stessa poesia, altro corteggiatore. Più maturo, meno casto. Sempre fluido. Hic et nunc, Oscar, ‘coinquilino’ occasionale, e momentaneo, di viaggio – il secondo ‘escort’ dopo il Luiz di Fortaleza (quello della churrascheria: versione locale, sintetica e soft, del Pipo di Paris la nuit’ – il tassista cicerone delle scorribande e trasgressioni nottambule dell’indomita e irredimibile Valérie Tasso, ‘attrice’ e ‘regista’ del livre de poche in una botta sola).

     Una sosta di qualche ora, una botta di vita condivisa da tutti i passeggeri, in un caleidoscopio di suoni, odori e colori (quelli del paesetto), fece fraternizzare Arianna e il gringo locale (sì, del posto, perché per i brasiliani i gringos sono i ‘foresti’), un sosia di quel Rodrigo Santoro – il ‘Tom Cruise do Brasil’ – che le aveva fatto venire l’acquolina in bocca mentre – in Charlie’s Angels 2 usciva macho dall’acqua, come un tritone ionico in cerca di una ninfa terrestre (e in effetti il bel Rodrigo era di origini calabresi).

     Ricerca andata a buon fine: i due rotolarono sulla sabbia colorata del canyon di Morro Branco, alla fine di un lungo percorso a piedi, fatto in religioso silenzio per non turbare il sonno e i sogni della natura rem. E per gustarne, centellinandole, le sfumature di colore. Con un Oscar sempre più turbato, e gasato, che le carezzava di continuo i capelli, sempre più biondeggianti. E decine di jangadas lontane dalla bassa marea, alcuni ragazzini a pescare, una bella garota in posa da book pubblicitario. E Arianna a far da venereo pendant, vellicata dalle ombre del canyon e dalle cangianti cromie della sabbia impalpabile.

    Arrivati a Jioca, Arianna, a perenne rischio di saudade, salutò (con sommo dispiacere) il macho di scorta (c’era la sua donna alla fermata, con un bel bum bum da Rio), ma si accomiatò pure dal pullman: l’ultimo tratto se lo sarebbe sciroppato (con i vari gulp) su una 4x4. Erano, infatti, entrati nel ‘recinto’ dell’area di protezione ambientale e, in virtù del divieto di costruzione di strade (Lula permettendo), erano obbligati a un percorso vizioso sulla sabbia: quaranta chilometri (e altrettanti minuti) di piçarra quasi lunare (soffice, bom Jesus). Dune dalle gibbosità a cammello, a dromedario, a yak, che davano al trekking su ruote un ritmo dodecafonico, alla Stockhausen – con tocchi e rintocchi ‘ambient’ e ‘glam’ (questi, alla Brian Eno) –, spezzato (o rinforzato) dagl’improvvisi trilli delle pozze d’acqua e ammorbidito dalle casuali ‘pezze’ di velluto erboso. Questo giustificava le circa sei ore teoriche di viaggio (al netto delle soste), ma Jeri valeva ben la messa. E anche le candele.

     Le strade erano illuminate solo dai watt della luna e delle stelle. E che water, che acqua cristallina! Alan Watts sarebbe passato, senza rimpianti, dall’Est all’Ovest… Questa era Jericoacoara: ‘rifugio delle tartarughe’ – nel linguaggio degli indigeni, il tupi-guarani. Il posto era, infatti, chiamato dai nativi Yuruco cuara, ossia buco delle tartarughe (per deporvi le uova). Località adatta quindi anche ad Arianna, pronta a ‘covare’ (non più solo rabbia). Ma c’era chi faceva derivare il toponimo dalla forma della vicina collina, quella del faro, che, vista da lontano, pareva proprio un alligatore accovacciato – Jacareqüara (anche qui un riferimento ad Ari, coccodrilla pronta all’assalto).

     Jeri/Ari-Arianna, cittadina ‘eco-globale’: pochi ettari la prima, un metro e settanta (e rotti, molti) di graffianti graffiti sul muro della vita la seconda. Jericoacoara, ‘ecocittadina’ del mondo, da cui partire per duecento chilometri (e spiccioli) di sgroppate in dune-buggy sulla battigia dell’oceano. Le dune costiere di Jeri erano le mammelle (silicee, non siliconate) del Ceará: lei, Jeri, la piccola, innocente bambina dai vestitini colorati era diventata signorina.

     Un eden in miniatura per l’Eva sempre-vergine: casette basse e variopinte, pousadas semplici ma non sempliciotte, bungalow tra alberi (maxiconi) di cajù. Strade senza nome, case senza numero. E lei, Arianna, la numero uno (non più vergine), parcheggiata (per sua libera scelta) per almeno una settimana, poi chissà. Questa volta cacciatrice di uomini per intima decisione, ma, soprattutto, donna decisamente (neo)single in cerca di emozioni. Motivata. Consapevole. Se poi avesse incontrato il ‘senso della vita’, sarebbe stato il benvenuto. Una bella ventata di aria fresca...

 

     E il vento dell’est continuò a soffiare: i primi giorni, spedizioni organizzate, poi scarrozzate in buggy con Tomás, il trentenne (o giù di lì) di Rio de Janeiro, italiano per caso (più che per scelta), cascatole proprio davanti alla sdraio, con cui aveva cominciato a scorazzare tra un tuffo e l’altro. Conosciuto il terzo giorno sulla spiaggia costeggiante il Mosquito Blue, il bed & breakfast cinque stelle in cui si era impigliata durante un surfing sulla ‘rete’ (era la prima volta che Arianna acquistava viaggi su internet. E Lorenzo?  Less than zero). Più che una pousada, una tovaglia di lino fine stesa direttamente sulla praia di Jericoacoara, gemma preziosa caduta dall’iperuranio, e che lei aveva scoperto per caso. E senza conoscere la combinazione.

     E sì che aveva bazzicato quelle lande trent’anni prima, e non platonicamente, ma aveva piluccato qua e là, non aveva aperto la cassaforte. Di questa distesa sconfinata di sabbia non aveva saputo nulla. Solo scartabellando su internet Arianna aveva scoperto che quest’area ambientale protetta era stata dichiarata nel 1994 una delle dieci spiagge più belle al mondo (meno male, very cool, avrebbe sostituito degnamente la tanto sospirata vacanza a Bora Bora, un cult della sua adolescenza, rimasto nel cassetto). La sua ignoranza andava comunque perdonata: fino a pochi anni prima Jericoacoara (uno scioglilingua che metteva in rilievo le deliziose fossette di Arianna) era stata solo un paesino sperduto di pescatori, al riparo da urbanizzazioni selvagge.

     Jeri, sempre più cool. Lontana dalle luci di Fortaleza: gli ultimi cinquanta chilometri, in mezzo alla sabbia. Nel vento. Rocce choc, alberi di cocco e oasi di sabbia, sfiorata da laghi d’acqua dolce e trasparente. Vele e palme sempre vibranti.

     Ari-Jeri (due in uno). Corpo bronzato. Anima nera. Selvaggia. Lo Spirito che soffia (tre in uno). Paradiso sperduto, eden a occidente, accidentale. Le dune come cherubini a guardia delle cristalline lagune d’acqua zuccherosa, che guardano, senza mai annoiarsi, il tramonto sul mare. Cantico dei cantici. Colour and glamour.

     La tavolozza giusta per dipingere un nuovo paesaggio... 

 

Tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara.

 


 

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