INCONTRO AL BUIO
È tardi, la macchina è in panne, ma la
casa di Gioia è vicina, in pieno centro.
Me la faccio a piedi.
Me la sbatto di SUV e gipponi – ma indulgo con le cabrio, rigorosamente
nere. Del resto, per dirla con la Verasani di Quo vadis, baby? “… dove ci sono le Range Rover non può esserci una
gran sete di conoscenza.”
Il vento fischia sulla pelle. Gocce di
pioggia m’imperlano il viso: il nevischio liquefatto dal fuoco interno mi
avvampa. Allungo il passo. È la mia prima volta e non posso tardare.
L’atmosfera è da romanzo giallo. Tinta di noir. V’intingo la penna dei
miei pensieri – quelli dopo l’ultima chat – e riscrivo mentalmente le ultime
parole di Gioia: “Ti aspetto a mezzanotte, l’ora
giusta per passare dalle parole ai fatti.”
Uno schizzo da una
pozzanghera, un clacson, due voci che battibeccano. Crudo il ritorno alla
realtà. Il portico mi inghiotte pietoso, la luna si piega, s’incurva
maliziosamente – alla Totò –, cerca d’infilarsi nel passaggio coperto. Vi
sbatte la testa (è luna piena), tenta d’illuminarmi, ma non ce n’è bisogno:
sono tutto un fuoco.
“Stanotte allenerò le mie labbra a sorridere e dovrò quindi pensare a
lavarmi fino alla morte i denti.” Un pensiero (a) folle alla Piero Ciampi
mi assale. Sbando, complice un’altra pozzanghera, ingaggio una breve lotta con
le mie fumisterie cerebrali, inciampo ma tiro dritto. Rimetto la mia mente a
cuccia e proseguo. Niente facce, niente piedi, solo ombre. Notte d’ambra: una
cocotte mi sussurra qualcosa, un transex traballa su tacchi follemente
siliconati, ma io glisso su entrambi.
Scivolo a folle
sull’impalpabile velo del pavé, spio tutt’intorno: sono di nuovo solo, tutto il
resto è noia. Pioviggina, sono disarmato: un altro portico mi accoglie prodigo
nel suo seno, ma io lo titillo solamente. Sarà per la prossima volta.
Un quarto a mezzanotte. La città è tutta
colorata di buio e di fari arancio – ne sento la fragranza. Nient’altro, solo
l’aria della notte e l’odore del fumo. E le stelle. Spremo il parapioggia, sotto
i portici non serve, tiro su il bavero – l’immancabile giubbotto para… di pelle
nera alla Lou Reed – e sfilo via accanto a visi senza faccia.
Asfalto bagnato.
Fischia il vento – e mi gorgoglia il ventre: sono a digiuno. La città mi scivola
accanto, sopra, sotto… Ma sento qualcosa d’incombente: c’è qualcosa nell’aria.
Lascio il Fight Club dei sogni, allungo ancora il passo, scavalcando il
tempo, dondolo ondeggio sbando scivolo. Suoni sincopati e barriti alla
Miles Davis mi inseguono, sbucati da chissà dove: mi sento come un ‘miles
gloriosus’ nella giungla urbana. Ma sono solo un tassello nel suo patchwork di
stoffe e colori, nella jam-session di suoni, parole, fiati, sussurri, bisbigli.
Tutto il mondo dorme. Respiro a plesso solare aperto, mi ricarico guardando
la luna piena e mi disintossico inspirando la polvere delle stelle. “Mugola in lontananza un aspirapolvere.”
Tre minuti a
mezzanotte. Sono in orario. Sbatto contro un tipo. Il ganzo – virante al gonzo
– mi guarda, caracolla, scocca la saetta: stecca, il dardo cade afflosciato. Lo
guardo, senza riguardo, lo fulmino. Getta la spugna. Si allontana
frettolosamente, quasi inciampa su se stesso, sfuma nelle tenebre.
Mezzanotte. Spremo il citofono (notte da
arancia meccanica?). Non ce n’è bisogno, lei è dietro al portone. Me lo
apre, con circospetta levità, quasi fosse uno scrigno segreto. Tattoo senza tabù. Le nostre labbra
s’incrociano, s’incollano, rimarginano ogni vuoto. Atmosfera da Cantico dei
Cantici: Le tue labbra somigliano a un filo
scarlatto, la tua bocca è graziosa; le tue gote, dietro il tuo velo, sono come
un pezzo di melagrana.
Entro. Non c’è bisogno di parola
d’ordine. In ogni caso, la conosco: Doppio specchio – ma è tanto per giocare. Ma non è sempre un gioco…
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