COOL
& SOUL
Primo agosto: caldo, sì, ma cool. Per
renderlo anche un po’ soul, ecco un esercizio di scrittura dal mio inedito Nietzsche:
sneakers o tacchi a spillo?
U
gotta let me know (la
musica soul aleggia nel bar cool – e nei miei pensieri, un po’ da
squinzia-allegra, ballano le prugne
secche: «Non si dice fico?», balbettò, «Com’è che si
dice? Tosto? Ganzo? Giusto?» Tosto. Il suo problema era pensare che si dicesse tosto).
Aspetto prima di rispondere (sono lento quando il rock tira – non seguo il
vento) e in quei pochi nano-secondi, per ricaricarmi, rivivo con accidiosa
eulogica lentezza le fasi del prima e dopo (l’incontro): quelle di mezzo le ho
già ingoiate (compreso il nocciolo).
Scorrono impalpabili i nano-secondi (e
veloci sull’ellecidì veleggiante si rincorrono implacabili i video-clip, sempre
più glamour e amour): sono di nuovo un gigante (ma lo sono
sempre – faccio passi da gigante, alla
Tony Robbins – quando calco la tastiera del computer, sfilando sui tacchi a
stilo come la mannequin del mio book):
”Lei
continua a camminare. Arriva in fondo alla passerella e fa una giravolta per
far ruotare la gonna e mostrare il plissé. Va giù per il ramo della T, gira sui
tacchi e si incammina lungo l’altro. Quando è quasi davanti a te, si gira e ti
guarda. Uno sguardo che potrebbe esprimere sia odio che indifferenza. Vorresti
chiederle la spiegazione. Lei si gira di nuovo e torna sui suoi passi, giù per
la passerella, come se niente fosse successo. Chiunque sia, è una vera
professionista, Chiunque sia, tu non la conosci.”
Ma
lui la conosceva bene. La memoria prolungata di ’Le mille luci di New York’,
di Jay McInerney, il minimal (quello della cometa di polvere bianca), adattata
alle circostanze e al luogo, lo accompagnò fin dall’inizio del pontile…
Scendo dal pontile della mia imagery sempre on (appartengo alla Non
Generation” – No Logo? No, the beat
goes on). Sto al massimo (qualche
cotta?). La sabbia scotta, scelgo la terra battuta (anche se più ‘coatta’).
Scotta anche questa. You gotta? Mi
butto sul pavimento. Mi rialzo. Up and
down. Tutto il locale mi gira intorno… Dormi bambina addormentata per il tuo bel sogno sognar. Nel tuo
letto addormentata comincerai a navigar.
Approdo,
poi ricomincio a navigare, cado in acqua, affogo… Ritorno a galla. Sono tutto
confuso. Dazed and confused. Devo
fare qualcosa. Devo trovare un punto di appoggio, un centro di gravità (anche
provvisorio). Trovo solo curve… e per distrarmi la guardo negli occhi.
Odio
chi non sa guardarmi. Odio
chi mi guarda in faccia ma non ha occhi per vedere. Odio la platitude… Salgo sulle vette (non ne ho esperienza, tranne
che da Maslow e gli altri miei compagni di rêverie,
anche camerati). Pianto la mia bandiera sulla cima, in the wild (oltre che in the
cut).
Qualcosa si stacca: tutta la passione congelata nel freezer del mio passato (l’era glaciale – time passes by), disciolta nella chill-out room del passato anteriore (gli ultimi tre mesi d’improvvisa bulimia creativa – senza rigetti), si riversa su di lei. Mai il lontano è stato così vicino. In & out.
Qualcosa si stacca: tutta la passione congelata nel freezer del mio passato (l’era glaciale – time passes by), disciolta nella chill-out room del passato anteriore (gli ultimi tre mesi d’improvvisa bulimia creativa – senza rigetti), si riversa su di lei. Mai il lontano è stato così vicino. In & out.
Chi era quella ragazza così out? Una
neo-esistenzialista post-histoire in vacanza single? Cascami di New Age
tra barlumi di Next Age? Scampoli del Grande Fratello? Una velina in uscita
libera? Una sciampista, una stagista, una staffista? Una veltroniana
free-lance? Il cervello di Lorenzo fumava nell’acqua diaccia.
Chi
è? La guardo, il suo
sguardo mi cattura, sprofondo… Angelo biondo, angelo tentatore di algida bellezza. Thule… che belva! Donna di inaudita audacia. Non parlo. Ho bisogno di
ascoltare. Lei pure.
Solo silenzi. L’eco di suoni assenti. E assetati. Cerco la fonte. Trovo un passaggio. Prima rettilineo, poi curvo, poi ellittico (cerco l’élite, ma dello Spirito). Sbando. Lei mi riporta in carreggiata.
Solo silenzi. L’eco di suoni assenti. E assetati. Cerco la fonte. Trovo un passaggio. Prima rettilineo, poi curvo, poi ellittico (cerco l’élite, ma dello Spirito). Sbando. Lei mi riporta in carreggiata.
Long
way 2 go (sempre lei,
Cassie: la cat-girl mi tira – e la
mia kulturkampf? In stand-by). La
stimmung è troppo carica (a quando le stimmate?). Freno, accosto, scendo,
scivolo sul marciapiede.
Lascio la realtà al suo destino. Weltanschauung. Un crescendo di sensazioni, orgasmiche, orgoniche: “Vento d’origine, collirio per occhi nuovi, giardino di delizie, delirium tremens. Tuareg in un deserto di valori…”
E discendendo: ”Il talamo li accolse a lenzuola aperte. Tra deliri ascendenti e dolori discendenti, solstizi ed equinozi. Amanti lontani, ora vicini. Mai distanti.” Meglio sognare…
Lascio la realtà al suo destino. Weltanschauung. Un crescendo di sensazioni, orgasmiche, orgoniche: “Vento d’origine, collirio per occhi nuovi, giardino di delizie, delirium tremens. Tuareg in un deserto di valori…”
E discendendo: ”Il talamo li accolse a lenzuola aperte. Tra deliri ascendenti e dolori discendenti, solstizi ed equinozi. Amanti lontani, ora vicini. Mai distanti.” Meglio sognare…
Improvviso i primi accordi. Il sogno è
uscito allo scoperto, un flusso di luce meridiana gli si frange contro, lo
sfrangia, lo scinde in mille brani, lo sbrana e io m’imbrano. Ne esco a
brandelli, ma almeno ricordo. Metto a fuoco, accordo le note stonate (ma sono
quelle che mi hanno dato l’intonazione giusta): il piccì, la mia dreaming machine, ha partorito una bella
bambina. Cresciuta (fin troppo, come la Diana del mio long-size book).
Deleuze, ci manchi solo tu!
Deleuze, ci manchi solo tu!
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