domenica 19 febbraio 2017

KARMA DEL KARMA, TUTTO È KARMA…


KARMA DEL KARMA, TUTTO È KARMA…

Oggi, domenica, shabbat – riposo. Approfitto, quindi, dell’onda lunga di Sanremo (non solo fiori, ma opere di bene, anzi, di Gabbani – e la Gabanelli… che fine ha fatto? Rai’s Karma…) ed eccovi, non me ne vogliate, un altro commento su Occidentali’s Karma.
Il tutto chiosato dal capitolo introduttivo del mio inedito (datato dieci anni fa) Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo? Del resto, la stimmung (delle parole, e non solo) è la stessa. Anche lo charme (spero, il carisma). E se ci sono dei riferimenti e delle citazioni, fatemi sapere.
Karma del karma, tutto è karma… (ma c’è anche il Dharma, e anche il dramma: ah, italica gente, tutto e niente!). Karmaffà...


Il significato di Occidentali’s Karma in 10 citazioni puntuali

Il brano di Francesco Gabbani, che ha vinto Sanremo 2017, è pieno di citazioni colte: da Shakespeare a Desmond Morris, passando per Dante ed Eraclito…
I criticoni l’hanno definita la canzone della scimmia, non senza un velo di disprezzo. Altri sono semplicemente rimasti perplessi – della serie ci è o ci fa? – dinanzi ai giochi di parole che gli autori hanno infilato in Occidentali’s Karma, brano che con una buona dose di ironia, mette alla berlina la nostra fuga ad libitum nelle filosofie orientali. Altri ancora, i più, si sono limitati a cantarla senza dare troppa importanza al testo, perché in fondo come diceva Bennato, “sono solo canzonette”.
Poi ci sono quelli che dietro il divertissement, nel testo di Occidentali’s Karma, scritto da Francesco Gabbani col raffinato Fabio Ilacqua (autore di canzoni per Mina e Celentano, con una passione dichiarata per Pasolini), hanno visto un bel po’ di citazioni colte, non si sa se finite li per memoria inconsapevole o per intenzione. Da Shakespeare a Nietzsche. E forse hanno ragione anche loro.
La canzone, ve ne sarete accorti, è una critica alla mercificazione dell’Oriente che abbiamo iniziato tanto tempo fa (ve la ricordate la new age?).
Il maglione arancione indossato da Gabbani sul palco del Festival è lì a dimostrarlo: nuance spirituale per eccellenza, impressa sulle tuniche degli Hare Krishna e dei Sannyasin di Osho (gli “Arancioni”, appunto). E negli anni in cui è tutto un un fiorire di corsi di Mindfulness, derivata dalla meditazione buddista e lo yoga viene declinato in forma di fitness in palestra, la riflessione ha un suo perché. Ma lungi dal farne un trattato logico pedagogico, gli autori ci hanno messo dentro molto sarcasmo e qualche rima facile, ballabile (sempre per dar ragione all’ottimo Bennato).
Senza toccare le vette (inarrivabili) della coppia Battiato-Sgalambro (e/o Battisti-Panella), è evidente che Gabbani e Ilacqua si siano divertiti a giocare con il canone occidentale.
Il brano inizia parafrasando Shakespeare (Essere o dover essere/Il dubbio amletico) e prosegue mixando Eraclito via Platone (comunque vada Panta Rei), Marx (Tutti tuttologi col web/Coca dei popoli/Oppio dei poveri), che nella critica alla filosofia del diritto di Hegel aveva definito la religione oppio dei popoli, e Marylin (Piovono gocce di Chanel). Non solo. Uno zelante prof d’italiano,  in “umanità virtuale” potrebbe intravedervi anche un riferimento a Dante (l’espressione appare nel commento di Francesco da Buti sopra la Divina Commedia, ndr), e il suo collega di Filosofia, in quel “gli uomini cadono” trovare persino una citazione a Nietzsche (“Io amo gli uomini che cadono, se non altro perché sono quelli che attraversano”). Ma non è detto che i loro alunni sarebbero d’accordo.
Ma la citazione più importante, che ha appassionato i critici letterari è decisamente quella della scimmia nuda: si intitola così il saggio che l’etologo Desmond Morris scrisse proprio 50 anni fa, dove l’uomo viene descritto come un concentrato di istinti ereditati progenitori pelosi. Il libro all’epoca suscitò accese discussioni. Troppo determinista, si disse: secondo Morris, che è stato anche direttore dello zoo di Londra, somigliamo tanto ai nostri antenati scimmioni, tranne che per via dei peli persi lungo la strada dell’evoluzione e come loro ci piace fare le cose senza chiederci perché. Siamo, insomma, assai prevedibili. E stavolta a ricordarcelo ci pensa una canzone, che probabilmente canticchieremo proprio senza preoccuparci troppo di quello che dice, da perfetti esemplari di Homo Sanremensis.

MORULE

Ci incontriamo agli angoli delle strade. A coppie, a grappoli, a stringhe sempre meno sottili. Cresciamo all’ombra dei portici, come batteri, morule, embrioni di future miriadi, angeli sparsi in cerca di paradisi possibili.
Siamo le membrane plasmatiche del centro e delle periferie urbane, giunzioni occludenti il vuoto delle menti e delle anime, teurgi plastici in cerca di corpi da rigenerare. Col forcipe dello spirito recidiamo le sbarre dell’anima e liberiamo dai ceppi impazienti i dèmoni dormienti. I nostri e gli altrui.
Senza addomesticarli li mandiamo allo sbaraglio tra i ‘petits bourgeois’ della ‘comédie humaine’ (dèmoni versus demòni: slitta l’accentazione cambia l’eone). Randomizzati vagano impacciati ma indomiti nelle piazze, nelle case, nelle menti, nelle paludi del caravanserraglio globale – dove sbuffa behemot, gingillo degli dèi e trastullo dei titani, e striscia il leviatano, un po’ biscione un po’ caimano.
Bariamo sui numeri (ma nel frattempo cresciamo a dismisura), saltiamo sui corpi, puntiamo sulle anime (e lo spirito? Sotto sale). Ci arrampichiamo sui muri, scivoliamo nei sottotetti, glissiamo sui salotti buoni. Ma verrà anche il loro turno – tour e retour.
E allora, che aspettate? Il turn-over? Tornite e guarnite le tartine al caviale, la pallina sta per fermarsi! Là bas.
Rien va plus. Il gioco si fa duro. E scivoloso. Ma dolce è l’attesa (meno le doglie). Arde il rovo, la voce chiama… “Siate caldi oppure freddi: ma i tiepidi li vomiterò nella Geenna.” Caos calmo, ciechi spasmi, miasmi cosmici: l’universo attende con ansia l’epifania teandrica – non sa cosa vuole, ma vuole qualcosa!
Alta marea: la terracquea arena è lì che aspetta, vociante, torbida, ondeggiante. Bassa marea: nella platitude vacua vaticina torpida la platea (e non è il Vaticano). Ogni tribuna e tribuno è in tiepida attesa di un messia o di una miss (tutto fa brodo – questa la voce del mondo). “Ah, se Erostrato il grande li ghermisse e facesse assaggiare a tutti i tiepidi il caldo estremo che raggela!” (la cultrea voce dal profondo).
E noi? Infine nudi nello spirito, ancora paludati nell’azione, palestrati nell’animo  continuiamo a nasconderci nelle segrete latebre delle lubriche piazze affollate. Per poi sbucare alla Kubrik nelle strade bucate e imbucarci, zampillanti e ludici come eroine zompanti, tra gli zombi nei corridoi sussurranti – riservando ai gorgoglianti portici le nostre residue ore aliene (è lì, nelle gallerie urbane, il nostro brodo di coltura).
Tuareg nel deserto che cresce, effimeri panici al galoppo, ossimorici lunatici grondanti gelide passioni; cammelli sgobbanti, leoni reboanti, fanciulli vocianti investiti da folate di sottile silenzio: questi noi siamo. L’ultimo uomo è appena nato e una donna sta per ucciderlo.


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