GIOBBE: DRAMMA UMANO E DIVINO
Sull’onda del Cantico dei Cantici, rivisitato da Benigni, e di
cui, pur cianciando e trinciando giudizi, ben pochi, almeno in Italia, sa
qualcosa (per non parlare della Bibbia intera), ecco l’inizio della mia tesi su
Giobbe, a conclusione di un percorso di studi in Teologia.
GIOBBE: IL DRAMMA È DIO.
Il Dio di Giobbe vs il Dio di
Giacobbe
Un libro che non abbia Dio, o l’assenza di Dio,
come protagonista clandestino, è privo d’interesse.
Nicolás Gómez Dávila
«Sì, l’ultimo atto di Dio sarà di
consumarsi e sparire nella sua creazione: come il grande Eroe che esce dal
talamo, che si espande nel creato per scomparire nell’abisso, dopo essersi
fatto luminosità e calore anche della più umile delle sue creature.» [1]
Consuma e si consuma, appare e scompare…
(come Gesù sulla via di Emmaus). Un Dio absconditus ma sempre presente: espansivo
e sfuggente, scompare nell’abisso per poi ricomparire; tirato in ballo, non si
sottrae alle sue responsabilità, ma si rivela nei fatti (fossero anche misfatti).
Realtà vicina, di cui
abbiamo esperienza quotidiana – chiamato o non chiamato, creduto o non creduto;
ma, soprattutto, Realtà Ultima: Essere, e non un essere, per dirla con
Paul Tillich.
In ogni caso, Dio c’è: « [2] »
Ma chi è questo Dio, e di
quale libro è protagonista, prima clandestino,
poi cittadino a pieno titolo?
Facciamo esperienza del
Divino in modi innumerevoli: dal timor panico, estatico, nel silenzio di una
notte stellata, al canto di un uccello mattutino; dal Dio di gloria che tuona
sul mare in tempesta al sottile suono di silenzio… [3]
Tutta la Bibbia, nelle sue
molte voci, è impregnata di questa Essenza, ma è nei libri sapienziali che il
Mistero esprime il suo lato “oscuro” (per noi) e apparentemente paradossale. E
dei tre massi erratici – Giobbe, Qoèlet Cantico dei
Cantici – voglio “fermare” il primo, lì dove
il dramma è Dio.
«Io grido a te, ma tu non mi rispondi,
insisto, ma tu non mi dai retta.
Tu sei un duro avversario verso di me
e con la forza delle tue mani mi perseguiti»
insisto, ma tu non mi dai retta.
Tu sei un duro avversario verso di me
e con la forza delle tue mani mi perseguiti»
(Gb 30,20-21)
Dalla
“cornice” passiamo ora al “quadro”. Nel grido di Giobbe è condensato il “dramma
umano”, sia esso espresso in modo palese o intimo, sia esso l’urlo disperato di
un credente o il grido esasperato di un agnostico: quello di Giobbe è l’appello insistente a un Dio
Giobbe: prima su, poi giù; poi di nuovo su, sempre più su… Creazione – de-creazione – ri-creazione, questo
il tema della mia tesina su Genesi, lì dove scrivevo: «… il mito biblico non
è paragonabile a quelli paralleli dell’Antico Vicino Oriente […]. Piuttosto,
qui il mito, inteso alla Campbell, è una metafora per indicare un
“processo di trasformazione”: per un popolo come quello ebraico, spesso in
esilio e cattività, funge da insegnamento e sprone a uscire dalla “zona di
(dis)comfort” per andare oltre ciò che è percepito come limite delle proprie
attuali possibilità.»
Giobbe è tutto questo: prima la creazione
(il successo), poi la de-creazione (la
caduta); infine, la ri-creazione e il ristabilimento di Giobbe, con “surplus” – cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia
e tutte le altre cosa vi saranno sopraggiunte (Mt 6,33). In ogni caso è un processo di
trasformazione.
Tuttavia, ciò che più colpisce
il lettore è la “decreazione”: Giobbe o de “l’eccesso del male”, per dirla con Philippe Nemo. E se c’è il male, c’è la
natura umana; non solo Giobbe, c’è Dio, e il suo “dramma”: Cristo sulla croce e
Giobbe sul mucchio di cenere: due sigle della nostra umanità. (Jorge Luis Borges).
GIOBBE: IL DRAMMA È DIO. Il Dio di
Giobbe vs il Dio di Giacobbe.
[5] 6] ,
nei quali, in forma prevalentemente poetica, è rappresentato
Ma cominciamo con l’uomo:
Giobbe è la storia di un credente. È il percorso travagliato, sia pur estremo,
che ogni credente può trovarsi a fare. Ciò che è capitato a Giobbe è
possibile, in varia misura, a chiunque (Dio
compreso: in Gesù). Ma ciò che fa
di lui un esempio è l’assenza di presunzione: nessun’arrogante pretesa (hybris) di misurarsi con Dio, solo il
disperato desiderio di conoscerLo, e quindi [4]
conoscersi. [7]]
ConoscerLo: teologia. Conoscersi: antropologia.
In quest’ultimo senso, secondo l’interpretazione antropologica di René Girard (ne
“L’antica via degli empi”), Giobbe
non sarebbe stato perseguitato né da Dio né da Satana [8], bensì dagli uomini: tant’è che, da “idolo” del popolo – grazie
al suo potere, alla ricchezza e alla fama –, diventa il capro espiatorio di tutti i mali della società. Ed è bastato poco –
un indizio, un momento di crisi sociale – perché uno come Giobbe, particolarmente
invidiato e oggetto di attenzione rancorosa, fosse additato come colpevole di
ogni male: i più esposti, in questi periodi di crisi, non sono solo gli
emarginati e i “diversi”, ma anche gli “emarginati in alto” (i potenti, i
ricchi, i capi).
Nondimeno, la krisis (riflessione, valutazione,
discernimento) è anche un’opportunità: il capro espiatorio, benché espulso
dalla comunità, ne diviene,
paradossalmente, il salvatore – la
società ritrova la pace e il suo equilibrio proprio grazie al riversarsi di
tutte le colpe sulla vittima sacrificale. Il capro espiatorio diventa “sacro” (segregato), come sacra è la
violenza che ne ha decretato l’espulsione.
Giobbe “crocifisso”, che soggiace al suo “carnefice” (Dio, che
ha permesso, fomentato o tollerato tale violenza), preannunzia Gesù e il Dio “finale”, che stanno dalla parte dei
poveri, dei sofferenti e reietti.
E con Gesù (leggendo Giobbe in
un’ottica cristiana) e il “Dio finale” entriamo nel vivo del tema: l’aspetto teologico del libro [9]. Prendo
spunto da una tesi ancor più ardita di quella di Girard: quella di Jung, che,
in “Risposta a Giobbe”, ipotizza una componente “satanica” in Dio, la cui onnipotenza può arrivare a
esprimersi, in campo etico, perfino come amoralità (peraltro, Jung parla di
“quaternità divina”, dato che, a suo vedere, alla Trinità mancherebbe l’aspetto
positivo e divino del male). [10]
Ma quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare… Invece di accettare con
rassegnazione questa indecifrabile volontà divina, Giobbe si erge a obiettore (di
coscienza): in disaccordo coi suoi amici, non solo accusa Dio di averlo stretto
in un cerchio senza via d’uscita (Gb 3,23-26), ma osa chiamarlo in giudizio (9,32), alla presenza di un arbitro capace
di dirimere la questione.
E chi è, secondo Jung, questo giudice
supremo [11], questo Dio super partes? È Cristo…
Infatti, Gesù, accertate sul campo – facendosi
uomo – le ragioni dell’umanità, di cui Giobbe è rappresentante (sia pur
estremo), libera Dio dalla sua onnipotenza “senza coscienza” e lo trasforma in un Dio d’amore.
Il libro di Giobbe è,
quindi, il “manifesto” del turning point nei
rapporti tra Dio e l’umanità; il senso di questa “sacra rappresentazione” – un dramma teandrico – secondo l’assunto
junghiano sarebbe questo: la vera redenzione che Cristo mette in atto è quella del Padre.
Tesi, quella di Jung, quanto mai ardita,
da intendersi soprattutto in chiave simbolica e psicanalitica, ma che rivela la
fecondità delle interpretazioni cui può portare il libro di Giobbe: riflessioni,
non solo sull’uomo – è così che, in genere, il libro viene letto – ma, soprattutto, su Dio [12], “pomo di discordia” nella Bibbia ebraica[6] e, spesso, per gli
stessi credenti. Un Dio che si rivela, nella forma più piena e matura, nei
Vangeli, ma che, nel suo “divenire” e “maturare”, passa dal Dio di Giacobbe a quello di Giobbe.
[1] David Maria
Turoldo, Il dramma è Dio, Fabbri
editori, Milano 1997, p. 116.
[2] “questa,
infatti, la risposta che l’Oracolo di Delfi diede agli spartani, quando vennero
a consultarlo prima di attaccare gli ateniesi.
«»).«, il Signore, sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli
che non mi invocavano.» Rm 10,20),
avvertita o inavvertita: «Ecco: egli mi passa vicino e io non lo vedo;
mi scivola accanto e non me ne accorgo» (Gb 9,11). Io
N.B. Le citazioni
bibliche sono attinte da varie versioni.
3 «Ecco il grande
paradosso: Dio, infinito ed eterno, si adatta e penetra in questa realtà che è
così fragile, sospesa, inconsistente. Ma ecco pure la grande intuizione: dov’è
Dio? Nella folgore? Nel terremoto? Nel vento impetuoso? Dio è nel “mormorio di
un vento leggero” o, traducendo più esattamente, Dio è una voce di silenzio
sottile. Non un silenzio che è triste assenza di suoni, ma un silenzio in cui
tutte le parole si compendiano.» (Gianfranco Ravasi, 2004).
4 Gianni
Cappelletto, Giobbe. Incontrarsi con Dio
nella sofferenza, Edizioni Messaggero, Padova 2015, p. 5.
5 «Nella
Bibbia ebraica, nessun altro essere umano vien fatto oggetto di affermazioni
tanto altisonanti come quelle riguardanti Giobbe, pronunciate addirittura da
Dio […] Di nessun altro viene detto che la sua condotta e il suo destino
divengono oggetto di discussione fra gli esseri celesti (1,6-12; 2,1-6). Per la
loro gravità e il loro accumularsi, la sventura che lo coglie e le piaghe che
gli vengono inflitte rappresentano il colmo di quanto ci si immagini possa
accadere a un essere umano. Per l’asprezza dei lamenti che contengono, i suoi
discorsi a Dio oltrepassano tutto ciò che altrove si può trovare nella Bibbia
ebraica. E nessun altro viene degnato di una risposta divina paragonabile a
quella dei grandi discorsi di Dio dei capp. dal 38 al 41.» (v. in Rolf Rendtorff, Teologia
dell’Antico Testamento, Vol. 1, Claudiana, Torino 2001, p. 360).
Il libro ha 42 capitoli, dei quali i
primi due e la fine dell’ultimo scritti in prosa, il resto in poesia. Si tratta
di un grande dramma, una lamentazione, un dibattimento processuale, un
palcoscenico su cui vengono messi in scena i temi portanti dell’esistenza: il
bene (e la prosperità), il male (e la sofferenza), la giustizia e
l’ingiustizia, la natura di Dio e il Suo rapporto con l’uomo.
Nel dialogo coi suoi tre amici – e con
Eliu, il predicatore di giustizia –
che rappresentano le ragioni della sapienza tradizionale, Giobbe sostiene che
la sofferenza del giusto costituisce una profonda ingiustizia, mentre i suoi
amici lo considerano un peccatore giustamente punito. A Giobbe non rimane che
appellarsi a Dio, a cui chiede conto del Suo comportamento ingiustificabile.
Dio interviene, non per dare spiegazioni, ma per invitare Giobbe all’umiltà dinanzi
a un problema che oltrepassa la capacità di comprensione dell’uomo. Alla fine Giobbe giunge alla vera
conoscenza di Dio e, per quanto non gli sia restituito quanto perso, viene
premiato in misura ancora maggiore rispetto alla sua condizione iniziale.
6 Nella Bibbia, dopo il Pentateuco e i libri “storici”, c’è un
terzo blocco di libri, chiamati “sapienziali”, che include: Giobbe, Salmi,
Proverbi, Qoèlet, Cantico dei Cantici, oltre ai deuterocanonici Sapienza e
Siracide (Ecclesiastico).
Per “sapienza” s’intende,
sia l’elementare buon senso – attento alle situazioni quotidiane, al problem solving e al raggiungimento
degli obiettivi – sia la ricerca del senso profondo della realtà e delle
finalità più nobili dell’esistenza.
Il libro dei Proverbi è,
probabilmente, il più antico tra i testi sapienziali: oltre a contenere massime
destinate alla formazione culturale e pratica, tratta della dottrina
tradizionale sulla retribuzione: ogni
azione ha la giusta sanzione; il
bene fatto è remunerato con il premio e il male con il castigo. Ed è proprio questa dottrina a essere messa
in crisi nel libro di Giobbe: Giobbe è un “giusto”, prima premiato e
poi sottoposto a prove durissime.
Sulla stessa linea di
Giobbe si pone il libro di Qoèlet, che
mette in luce le molteplici contraddizioni dell’esistenza. Ma la sua
critica della sapienza tradizionale, considerata fin troppo schematica e
ottimista, risulta ancor più radicale (Ravasi considera Qoèlet “fratello di
Giobbe”, ma a livello estremo). Pur senza risolvere i numerosi interrogativi
che pone, Qoèlet (“colui che anima l’assemblea”), apparentemente agnostico, se
non proprio ateo (tutto è vanità, tutto è
nulla), alla fine si palesa un credente: infatti, se da un lato invita a
godere degli aspetti positivi della vita – dato che tutto passa, tutto finisce, tutto fugge via – d’altro canto
ricorda che ogni azione sarà giudicata da Dio.
senza intermediari: è la
‘colpa’ di non conoscersi che egli vuole affrontare; è questa la ‘speranza’
che egli ripone nella ‘discussione’ con Dio. Ciò che gli è capitato è
certamente segno della sua natura, appartiene al suo essere – e questo essere
gli rimane indecifrabile. A chi chiedere, in quale specchio riflettersi, se
non nel proprio stesso Fattore? Nessuna presunzione, perciò, nessun’arrogante
pretesa di ‘misurarsi’ con Dio, ma il disperato ardore del desiderio di
conoscersi in Lui. E forse, badi: forse, Dio risponde.» (da Della
cosa ultima, Adelphi 2004).
8 Satana, anzi il “satan”, in Giobbe è solo un
funzionario ispettivo della corte celeste: una sorta di pubblico ministero, che
non rimane, però, fermo dietro al banco dell’accusa, ma gira per la terra
“spiando” (satan: l’accusatore,
l’avversario – ma dell’uomo, non di Dio, almeno nel libro di Giobbe, dove
peraltro satan compare solo
all’inizio e poi non ha più alcun ruolo nella storia. E né Dio lo critica, cosa
che invece fa con i tre “amici” di Giobbe). Analogo è il significato di
“diavolo” (diabolos: colui che
divide), che nel Cristianesimo assume la connotazione specifica di entità
malvagia e spirito maligno – con antecedenti nei daeva del Mazdeismo (Zoroastrismo), nell’apocalittica apocrifa
ebraica e presso gli Esseni.
9
Teologia e teodicea: Quest’ultima indaga sul volto di Dio (chi è Dio?), sul Suo
rapporto col mistero del Male (se Dio è buono, perché allora il male?) e su
come esercita la giustizia (esiste un ordine nel mondo?). Quanto alla prima,
nel libro di Giobbe parliamo di teologia
“sapienziale”. Sempre nella mia tesina scrivevo: «più che a miti ci
troviamo di fronte a ”eziologie metastoriche sapienziali”, ossia a una
narrazione solo apparentemente storica, con una sua trama di fatti ma con un
intento filosofico-teologico, quindi ‘sapienziale’ ed esistenziale. Il racconto
vuole risalire idealmente alla sorgente della storia umana, cercandone, eziologicamente, le cause, il senso e la
finalità: è una ‘metastoria’ fondata su tipi e archetipi che vogliono svelare
la scaturigine del Bene (creazione) e
del Male (de-creazione), mettendone
in luce le dinamiche esistenziali, proiettate su uno sfondo e télos universalistico, e illustrando le
condizioni affinché il primo prevalga sul secondo (ri-creazione).»
10 Con riferimento alla “faccia nascosta di Dio”, secondo un assioma cabalistico: demon est deus inversus; ossia,
“il diavolo è l’opposto di Dio”; meglio: “l’altra faccia di Dio” – nel senso
che, a seconda delle situazioni, Dio si comporta in un modo o nell’altro,
essendo al di là del bene e del male. Nel
libro di Giobbe viene posta la domanda fondamentale: il Male è al di fuori di Dio o è “dentro” Dio? La
Bibbia abbonda di esempi in cui Dio è “causa” del male della vita delle persone
e del mondo: «… Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto
questo.» (Is 45,7). Secondo Amos 3,6: “se una città
viene colpita dal male, ciò è per volontà divina”. Ma capita anche che Dio “si penta”.
Allora, si Deus est cur (unde) malum? Per
la Qabbalah Dio si è contratto
(autolimitato) – Tzimtzum – per far
sì che l’universo potesse esistere: ed è proprio per questo che il creato non
ha una piena esposizione alla natura
infinitamente buona di Dio.
11 Grazie al rîb (lite giuridica),
alla fine del libro qualcosa si rompe e avviene una mutazione
improvvisa e decisiva: sia Dio sia l’uomo
aprono gli occhi… Secondo Jung, Giobbe è il “punto di rottura” nell’equilibrio tra Dio-creatore
e uomo-creato.
Ed è questa “crisi” che rende
“necessario” il cambiamento in Dio stesso e che porta all’incarnazione, ossia a
Gesù.
12 Nell’Antico Testamento la divinità è conosciuta sotto vari nomi, talvolta
maschili (Elohim, Adonai, El, sino a Baal), talora femminili (Ashera, Regina del cielo). Alla fine il Nome del Dio d’Israele è JHWH,
l’impronunciabile Tetragrammma.
In Es 20,2-3 (e non solo) il Dio d’Israele è individuato
come il Dio che ha fatto uscire Israele dall’Egitto, dalla condizione di
schiavitù: è quindi il difensore dei poveri e degli oppressi, non il Dio-Re
alla Baal dei miti cananei o il Marduk che diventa re e legittima la regalità
in Babilonia (v. anche in: Jorge Pixley, Dio,
pomo della discordia nella Bibbia ebraica; in AA.VV., “Le molte voci della Bibbia”, Concilium 1/2002 – Edizioni Queriniana, Brescia 2002, pp.
15-24).
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