GOCCE DI PIOGGIA DA
JERICOACOARA
Flashback
Oggi riprendo un articolo
pubblicato su una rivista web circa nove anni fa, relativo al mio “romanzo di tras-formazione”
– un romanzo “multistrato e multilivello” molto particolare, non solo per le
sue tematiche di fondo (ideologiche, filosofiche, teologiche, spirituali), ma
per la “scrittura” e la “visione”. Romanzo (premiato) che
qualcuno ha così definito: romanzo-rapsodia,
fervido di vita e voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore
… vorticoso nel suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e
trepidazione, ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura vivace,
geniale, estetizzante, ma tutt’altro che décadent, capace di affratellare
Policleto e i Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire
di sapienze ed eresie, dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da
giocoliere della parola e da funambolo della nuance.”
Dalla quarta di copertina
«La baia danzante di una Pugnochiuso non ancora stile Bollywood,
le spiagge infinite di Copacabana e Jericoacoara, la Manhattan ancora fumante
da “Diavolo veste Prada”: tutte legate da un filo rosso che tiene uniti
passione, avventura e mistero. Un nastro sottile che, a ogni istante, rischia
di essere tranciato dal filo tagliente degli eventi, ma che poi, magicamente,
continua a riavvolgersi nello ‘spin’ del tempo: il ’68 dell’immaginazione al
potere e del “fou rire”, gli anni ’80 dell’Italia da bere, Nietzsche e Marx che
parlano insieme al bar, Beyoncé, Rihanna, il Papa seduto al piano… Fino
all’imprevedibile esito finale. Nulla si fanno mancare Lorenzo, Gaia, Arianna,
Tomàs, Julim, l’inquietante Galatea… Notte fonda a Jericoacoara, bagliori di
luce nella Grande Mela: una galassia di “particelle elementari” filanti senza
direzione e senso, staccatesi da quel magma incandescente che è la vita. Ma che
poi, tra Taranto, Roma e Firenze, “terza stella a destra”, cominciano a puntare
dritte verso il traguardo».
Estratto
dal Capitolo 8
Ah, ah, we come from the land of the ice and snow,
from the midnight sun where the hot springs blow.
the hammer of the gods will drive our ships to new
lands,
to fight the horde, singing and crying: Valhalla, I am
coming!
Mandato al diavolo il tre volte sei, Lorenzo-zeppelin si librò
angelicamente in volo, verso lande nuove, immigrant song. E
scongelatosi, cantando e piangendo – di gioia (e parlando in lingue: un’estasi
pentecostale giunta al momento opportuno) –, ricominciò a nuotare con
accresciuta lena: più filava, più raggomitolava quell’impercettibile ‘filo’ di
miriadi d’incontri del terzo tipo che si era srotolato nella sua vita.
Non sempre intravedendovi un principio d’ordine superiore: sino a una
quindicina di anni prima li avrebbe prosaicamente declassati a banale frutto
del caso, a quell’imprevedibile roulette di circostanze che secondo il babbano
(per dirla alla Harry Potter) – e lui era stato davvero un babbano-babbione! – guiderebbe
la danza quotidiana della vita. Eppure, quante volte, in occasioni pericolose,
o quantomeno imbarazzanti, aveva assistito al capovolgimento insperato della
situazione…
Casualità, coincidenze, oppure (sia pure una volta su mille!)
una Presenza Superiore? Ma ecco lì, sempre acquattata (come il peccato
– il demone Rabisu – alla porta del cuore di Caino), la sua voce laica interiore,
figlia della razionalità, sempre pronta a soffocare le sue intuizioni.
“Molti
erano abituati a credere che gli angeli muovessero le stelle. Ora è chiaro che
non lo fanno: come risultato di questa e di consimili rivelazioni, adesso molta
gente non crede negli angeli. Molti erano abituati a credere che la ‘sede’
dell’anima fosse in qualche posto nel cervello. Da che si cominciò ad aprire i
cervelli con una certa frequenza nessuno ha mai visto l’’anima’: come risultato
di questa e di consimili rivelazioni, adesso molta gente non crede nell’anima.
Come si può ritenere che gli angeli muovano le stelle, o essere così superstiziosi
da ritenere che l’anima non esiste solo perché non la si può vedere dall’altra
parte del microscopio?”
Ronald Laing, non certo sospetto di ‘bigottismo’, aveva tolto la
maschera – il burka – allo ‘scientismo’, a quella Scienza piccola piccola,
dogmaticamente irrigidita, che, protervamente, vuole pervadere e poi
anestetizzare l’intera esistenza umana. Ma lui, Ronnie, lo ‘sturacervelli’, non
era stato al gioco. Gli angeli avevano ripreso a volare.
“Coincidenze,
eventi improbabili, incontri imprevisti; abbiamo buone ragioni per attribuire
loro un «significato»? La risposta è che di ragioni non ce ne sono, ma che
siamo irresistibilmente indotti a trovarne, fino a ipotizzare che vi siano
delle cause «soprannaturali».” Fin qui il ‘filosofo
minimo’ Andrea Massarenti. Ma Lorenzo voleva largheggiare – andare oltre l’existenz
minimum – e introdurre delle variabili, fossero pure dei ‘fantasmi’.
Dell’inconscio o dell’aldilà, eterici o astrali, non importa. Purché volassero.
Fatto è che… “Invocati o no, gli dèi sono presenti”. Altra
pietra d’inciampo Jung (prima di Jünger, ma entrambi con ‘filosofia’, anzi Pistis
& Sophia), lo ‘speleologo’ delle ‘caverne’ dell’interiorità umana –
testimone questa massima, scritta in latino all’ingresso della sua casa –, per
il quale non tutto poteva ricondursi a mere coincidenze o a fantasmi dell’inconscio.
Ed ecco, quindi, uscire dal suo antro (o domus aurea? In Jung c’erano luci e ombre)
il suo concetto di sincronicità, quella correlazione tra fatti
interiori ed esteriori che sfugge a una spiegazione causale e razionale (non
per caso, né per causa). Quella sintonia (e sinfonia) tra tempo ‘umano’ e
‘oltreumano’ (sia esso inconscio, superconscio, angelico…) che,
già dai tempi di Lorenzo universitario a Firenze, in pieno ’68 e dintorni, aveva
introdotto una nota stonata in quella sua weltanschauung fin troppo
razionale.
“Meglio
essere un delinquente che un borghese” aveva dichiarato
lapidariamente il giovane Ernst Jünger. Prima pietra. La seconda: “…e
mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.” Conclusione
(foscoliana. Ai limiti del fosco, e del bosco): si svegliò guerriero.
E Lorenzo, leopardato e jeopardized, iniziò a tirare le pietre (e non
era brutto…).
Fu lì e allora – nella Firenze post-alluvione (ma in pieno
diluvio da turning-point esistenzial-planetario) – che, smessi gli inamidati
abiti da borghese piccolo piccolo, acceso dai sinistri fuochi di Lotta
Continua, destreggiandosi a piedi nudi sui carboni ardenti di Lotta di
Popolo, Lorenzo-mix sessantottino, fascio e martello, fiamma e
celtica, Sturm und Drang, scacciò, drag-king, il pulviscolo
terra-terra. Dopo di che, (re)suscitato l’anarco-esistenzialista jüngeriano (e
dintorni), da sempre accovacciato alla porta del suo animo – rebel, free
lance, nemico della società del caos organizzato –, gettò via la maschera
pirandelliana e indossò quella, tragica, di Mishima. Lui voleva avere
‘stomaco’, voleva essere saldo e valoroso. Soprattutto, vigoroso.
Lorenzo voleva volare…
Alea
iacta est. Spada (e arco) in mano e lancia (e clava) in resta (con in testa
il martello degli dèi – lo zeppeliano The hammer of the gods ), il
‘baldo’, da imbolsito e zeppoloso che era, si scremò e, screaming, iniziò
a confessare baldanzosamente a destra e a manca i suoi peccatucci borghesi.
Quindi, lasciata la strada maestra (ma presa quella magistra),
sospinto da questo fresco ‘mistral’ – che aveva spazzato via scirocco e smog –,
raggiunse senza battere ciglio il burrone. I tempi per il salto (e il saluto)
‘fascista’ (sia pure sessantottino) erano maturi. Nuovi profumi, nuovi
finimenti. E non c’era solo Marte (o Odino), ma anche Hermes. Nuovi
profumi.
Lorenzo si buttò.
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