mercoledì 3 febbraio 2021

KILLING ME SOFTLY (parte prima)

KILLING ME SOFTLY

(parte prima)

   Esprit de géométrie ed esprit de finesse. Oggi e domani esercitazioni linguistiche allo stato impuro (nel senso che c’è la forma – per me un ‘must’, d’obbligo, insomma – e c’è il contenuto, la sostanza). Questa volta tratte, non dal mio romanzo premiato, ma dal mio inedito (e ‘incompiuta’: fa molto fino…) Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?

    Uccidimi dolcemente, ma uccidimi… Entra nel rovescio del mio mondo e affonda il tuo cultro lì dove gli altri hanno fallito. Trascrivo febbrilmente i loghia onirici, battendo sul tempo i famelici gargoyle del subconscio, spasmeggianti nevrilmente dalla brama d’ingoiarli nei lenti gorghi amnesici. L’oceano notturno si è ormai contratto in un’anoressica pozzanghera: solo i vortici di alcuni citri d’acqua dolce – i sogni che hanno bucato le porte di corno (quelli che verità li incorona se un mortale li vede) – sono sopravvissuti. V’intingo la mia plume mentale, strappata all’uccello nottaiolo attardatosi a oziare sullo spoglio ramo dell’ultimo ramingo albero della fuggente selva dell’oblio e… fandango.

Because the night belongs to lovers, because the night belongs to lust, because the night belongs to us… È l’alba, la notte è scappata coi suoi amanti, i dardi aurorali scippati alla febica faretra hanno colpito a morte le mie effervescenti passioni ctonie (ma rivivranno allo scoccare della mezzanotte) e i gendarmi del mattino hanno ammanettato le mie voglie corsare (adieu fuitina stellare con Jessica Alba… ogni notte un trip diverso). It’s too late to apologize. Non ho più scuse. Dalla radiosveglia la voce velvet del sempre cool Timbaland mi riporta sulla battigia. It’s too late… Lascio Garden of nights (il Village da dreamer radical-chic – niente di particolarmente osé: solo Muse e qualche strip) e mi butto giù dal letto.

Della notte mi è rimasto solo il sorriso: lentamente passo per l’ultima volta il dito sulle sue labbra di sogno, prima che si assottiglino e sublimino, impalpabili come labili fili evanescenti, al balenare delle prime pallide luminescenze diurne. L’eco narcisa degli ultimi sparsi frammenti onirici cerca invano di raggiungermi, ma ammutolisce spaurita davanti all’alba sorgiva, sfiatando pudica nel lete delle memorie fuggitive. No pain, no drama: ho già trascritto le stille essenziali, lascio senza magone le vaghe stelle dell’orsa.

Il telefono squilla. L’ultima, definitiva, rupture al notturno soffitto di cristallo: di lì, rapito, posso mirare l’epifania degli dèi. Squallida cocotte, vattene per la tua strada… io sono fedele al mio computer (e pensare che fino a qualche annetto fa manco me lo filavo…). Lascio a letto i miei clandestini philosophes prêt-à-porter (nouveaux o anciens, tutti mi fanno il filo, ma io mi fermo ai preliminari), snobbo la cornetta – di giorno sono fedele – e vado a tirare. Slash-flash: qualche strisciata di piccì, per tenermi su. Inizia la mia giornata.

   O viva morte o dilettoso male. Se non fosse stato per il libro, il computer poteva pure andarsene in cancrena. Kissenefrega. Datemi i libri e vi solleverò il mondo, ma il computer… Polvere e pula al vento (questo il mio primo soft impact, anni fa, e neanche tanti. Sono tardo, e lento, quanto a tecnologia). Eppure, mio malgrado, me lo devo sorbire. Kiss kiss. E si sa, la mano, il braccio… e poi, chiodo scaccia chiodo.

Libri ‘inchiodati’? Jamais! Books, booklets, penguin classics, livres de poche, pocket, tascabili, purché libri… (anche e-books. Ammazza… – amazon – che bibliofilo!). Li compulsava, slinguava, odorava, sniffava e poi vi ci si tuffava. Anche a occhi chiusi. Lorenzo era uno junkie, un drogato (di fogli stampati, non di cartine), un book-addicted: aveva più d’una scimmia sulla spalla (e gli facevano pure le linguacce).

A proposito, pour parler: Lorenzo, il bookworm (ma anche movieworm), fluiva in english, galleggiava in tedesco – aveva fatto uno stage nazi-runico –, dava delle belle unghiate french. E poi ogni tanto stillava, specie quando scriveva, gocce d’umor pagano dall’Olimpo e dai Sette Colli; un po’ di ‘vento divino’ dal Sinai per la par condicio e, sursum corda, sciacqui nel Gange.

Croce e delizia. Le parole schiodate dal mio libro – sempre in attesa di pubblicazione – m’inchiodano a Lorenzo (il mio alter-ego di carta, un ‘ribelle’ sempre meno virtuale). Lui il crociato, io la pietra filosofale; loro, gli ipsissima verba, il martello: il triangolo perfetto per incidere nella realtà (e non solo per ballare sul mondo).

Diapason, flauto, arpa, siringa… Ago che inietta vita: senza strumenti musica nuda la parola produce.

   Fatti e misfatti. Verba volant (et volunt). Sì, il linguaggio che si fa parola, la parola che si fa atto: “nessuna cosa è dove la parola manca” – questo uno dei motti preferiti di Galatea (soffiato a Heidegger, ma da lui stillato, con ‘cura’, da ‘Das Wort’, poesia di Stefan George – lingua vergine, ‘virgo mater’ del sacro cerchio). La parola che nomina le cose, le contrassegna, le crea. “Basta la parola…”

Parola coessenziale all’azione. Parola in movimento, in divenire, in estasi. Versi intessuti, carmi circolari, parola in cammino. Parola ‘attiva’. Più che ‘parola’, ‘verbo’, azione che si attende una re-azione. Action now. Parola dinamica, scoppiettante. Parola che grida quando più tace. Parola che canta, sussurra, piange. Nella parola balugina la spiritualità dell’anima. E questa si fa corpo. Per accoppiarsi e poi scoppiare. È la parola che dà sostanza, essere, alla ‘res’. Logos lex: la parola è legge. Logos Rex: la parola è re, anzi regina, e di questo logos Galatea era diventata padrona.

    Suona la parola la malvestita realtà… Parolibere ancheggianti, ossimori frenati o rutilanti, specchi autoriflettentesi, un po’ narcisi un po’ Eco. Un romanzo-carillon il mio – i fatti come lame rotanti, i pensieri come trottole vorticose, e in cima a ciascuna di esse le parole come dervisci tournants sulla capocchia di uno spillo.

   “Romanzo-rapsodia, fervido di vita e voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore … vorticoso nel suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e trepidazione, ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura vivace, geniale, estetizzante, ma tutt'altro che décadent, capace di affratellare Policleto e i Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie, dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da giocoliere della parola e da funambolo della nuance.” (a parere, e sentimento, della scrittrice e filologa “ariana”).

Io (il nome? Non serve), servo della parola. E Lorenzo, mio schiavo (e poi Galatea, la matrona a seguire famuli e ancillae in ordine sparso). Romanzo à la carte: antipasto, primo e secondo della mia vita (ero alla frutta).

Lorenzo audioslave. Gli piaceva la musica gospel, battere i chiodi col martello e parlare in lingue. Non era la prima volta che sconfinava in lande straniere…

   Verba volant (come stringhe cosmiche), scripta manent (come quark plutonici). Macchie uraniche d’inchiostro sotto vetro (il display del computer), esprit irenico, platonico, ironico, forse iranico (Zarathustra?). Particelle elementari, staccatesi da un magma incandescente e filanti senza direzione e senso. Pensieri e parole coagulatesi in stringhe cosmiche (anche comiche), corde vibranti del mio pluriverso (canone inverso): stringhe aperte sull’universo per connettere le estremità di pensieri a folle, stringhe chiuse sull’introverso per accalappiare idee occhieggianti dall’ultramondo (il mio castello interiore, l’empireo, la Sophia divina, la Scienza gaia?). Lorenzo, the fool on the hill.

Thriller… Con quanti denti le parole mi mordevano! Ma ciò che più incidevano nel romanzo erano i silenzi: “sguardi senza patria quaggiù, silenzi più remoti dell’uranico vento…” Nondimeno, erano le parole a de-cidere, ad agire, a in-cidere sui miei sentimenti. Sono loro – verba, logoi, loghia, rhemata – a configurare e a dare espressione alla mia necessità interiore (in attesa di trasfigurarla, di trovare la mia ‘dimensione’, la mia necessità più alta – insomma, diventare ciò che sono).

Vir bonus dicendi peritus? Più che altro, sono un malato – quasi allo stadio terminale – di parole, specie di quelle fatte di silenzio (quanto al bonus ne avrei fatto volentieri a meno. Non voglio sconti, figuriamoci regali…). Parole silenti. (“Chi parla non conosce. Chi conosce non parla.” È il Tao Te Ching a dirlo). Dal sottile suono di silenzio al rombo del tuono (il ruggito della scrittura – e poi, come graffia…): come Ildegarda la mistica, sapevo scrutare le viscere della memoria e il ventre dell’universo. E col forcipe dello spirito avevo reciso le sbarre dell’anima. Il terribile era avvenuto.

Thor. Parole tonanti o sussurranti, fluenti a cascata (mai stagnanti), corpose ed eteriche, arcaiche ed estatiche (extase à deux), estetizzanti, escatologiche e frivole, nouveaux o déjà vu, sempre in bilico sul borderline tra greve e sublime. Mi denotavano, connotavano, erano insieme referend e symbol, signifié e signifiant, langue e parole, “suono su una faccia, e pensiero sull’altra”. E lasciavano il segno: Guance arrossate, traccia inequivocabile di un contropelo troppo duro...” Speravo solo che incidessero nella realtà, fossero spade a doppio taglio, non solo spilli per inc… mosche (e per decenza non diciamo di più, direbbe il siculo Buttafuoco, dimentico del franco Céline).

   “La parola è un tremendo pericolo, soprattutto per chi l’adopera, ed è scritto che di ciascuna dovremo render conto.” Sì, ero un topo di biblioteca (ultima scoperta, Cristina Campo – nella mia anima, scampata agli spaventi del giorno, già da tempo albeggiavano i suoi silenzi remoti trafitti dai dardi verso il cielo); e ora, col mouse, anche scrittore (ancora in vitro, leggermente scheggiato). Echeggiante (all’inizio, boccheggiante. Nessuna Eco, solo un sottile suono di silenzio…). Un po’ randagio un po’ domestico (badante?). Eppure, voglio essere selvaggio: voglio scagliare come dardo la mia necessitante volontà e ferire l’orecchio di Dio! Voglio inferire, infierire…

E ‘l naufragar m’è dolce in questo mare… E dopo aver scampato tremendi pericoli (parole, parole, parole…), dopo qualche beccheggio ero finito nella rete. Senza rendermene conto. Passato, quanto ai libri (quando bucavo la rete e tornavo sulla ‘carta-ferma’ – che giravo freneticamente), dall’insostenibile leggerezza dell’essere all’alito pesante del drago che butta fuoco (quello del contropelo).

L’ultima del diavolo? No, tutta colpa di Lorenzo, il mio biblio-avatar (lo junkie, il book-addicted, bookworm e movieworm…). Uno che, anche se solo ‘di carta’ o ‘sulla carta’ (a dire il vero neanche quella: il libro era corposo sì, ma di lui aleggiava solo l’anima – non era stato ancora edito), conoscevo bene, biblicamente (un tocco di gayezza? Forse l’onda lunga di Stefan George e gay-bardi dis-correndo – quanto alla literacy non mi faccio mai mancare nulla).

“Si tratta di arrivare all’ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi.” Amo gli eccessi (a parole, quando mi spingo giù sino ai ‘poeti maledetti’) ed eccedo negli amori (anche qui, verbis non factis). “Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente.” Ho sposato la prosa, ma la tradisco con la poesia (sono single). E ci sono altre Muse che spingono per entrare: fuori piove…

 


 

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