lunedì 15 marzo 2021

GIOBBE: DRAMMA UMANO E DIVINO (Seconda Parte)

GIOBBE: DRAMMA UMANO E DIVINO

(Seconda Parte)

Ma entriamo nel vivo di: GIOBBE: IL DRAMMA È DIO. Il Dio di Giobbe vs il Dio di Giacobbe.

Innanzitutto, il libro: Giobbe rientra in quella letteratura biblica, definita “sapienziale”, che maturò dopo l’esilio babilonese, quando, all’entusiasmo iniziale, collettivo, negli ebrei rimpatriati subentrò la fase della riflessione individuale (anche per effetto dell’influsso ellenistico). Fu in questo “brodo di cultura” che, nel V-IV secolo a.C, videro la luce (o la redazione finale) alcuni dei libri sapienziali [5]: Qoèlet, la Sapienza e Giobbe, nei quali, in forma prevalentemente poetica, è rappresentato il dramma dell’uomo posto di fronte agli interrogativi di sempre: la vita, la morte, la malattia, la sofferenza, il peccato, Dio.

Il Libro di Giobbe è, quindi, un compendio di: teologia, antropologia, amartiologia e soteriologia. Gli studiosi si sono soffermati soprattutto su questi ultimi tre aspetti, ma io metterò a fuoco il primo: in effetti, il vero protagonista – il soggetto su cui indagare – non è tanto Giobbe, quanto Dio...

Ma cominciamo con l’uomo: Giobbe è la storia di un credente. È il percorso travagliato, sia pur estremo, che ogni credente può trovarsi a fare. Ciò che è capitato a Giobbe è possibile, in varia misura, a chiunque (Dio compreso: in Gesù). Ma ciò che fa di lui un esempio è l’assenza di presunzione: nessun’arrogante pre­tesa (hybris) di misurarsi con Dio, solo il disperato desiderio di conoscerLo, e quindi conoscersi [6].

ConoscerLo: teologia. Conoscersi: antropologia. In quest’ultimo senso, secondo l’interpretazione antropologica di René Girard (ne “L’antica via degli empi”), Giobbe non sarebbe stato perseguitato né da Dio né da Satana [7], bensì dagli uomini: tant’è che, da “idolo” del popolo – grazie al suo potere, alla ricchezza e alla fama –, diventa il capro espiatorio di tutti i mali della società. Ed è bastato poco – un indizio, un momento di crisi sociale – perché uno come Giobbe, particolarmente invidiato e oggetto di attenzione rancorosa, fosse additato come colpevole di ogni male: i più esposti, in questi periodi di crisi, non sono solo gli emarginati e i “diversi”, ma anche gli “emarginati in alto” (i potenti, i ricchi, i capi).

Nondimeno, la krisis (riflessione, valutazione, discernimento) è anche un’opportunità: il capro espiatorio, benché espulso dalla comunità, ne diviene, paradossalmente, il salvatorela società ritrova la pace e il suo equilibrio proprio grazie al riversarsi di tutte le colpe sulla vittima sacrificale. Il capro espiatorio diventa “sacro” (segregato), come sacra è la violenza che ne ha decretato l’espulsione. Giobbe “crocifisso”, che soggiace al suo “carnefice” (Dio, che ha permesso, fomentato o tollerato tale violenza), preannunzia Gesù e il Dio “finale”, che stanno dalla parte dei poveri, dei sofferenti e reietti.

E con Gesù (leggendo Giobbe in un’ottica cristiana) e il “Dio finale” entriamo nel vivo del tema: l’aspetto teologico del libro [8]. Prendo spunto da una tesi ancor più ardita di quella di Girard: quella di Jung, che, in “Risposta a Giobbe”, ipotizza una componente “satanica” in Dio, la cui onnipotenza può arrivare a esprimersi, in campo etico, perfino come amoralità (peraltro, Jung parla di “quaternità divina”, dato che, a suo vedere, alla Trinità mancherebbe l’aspetto positivo e divino del male) [9].

Ma quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare… Invece di accettare con rassegnazione questa indecifrabile volontà divina, Giobbe si erge a obiettore (di coscienza): in disaccordo coi suoi amici, non solo accusa Dio di averlo stretto in un cerchio senza via d’uscita (Gb 3,23-26), ma osa chiamarlo in giudizio (9,32), alla presenza di un arbitro capace di dirimere la questione.

E chi è, secondo Jung, questo giudice supremo [10], questo Dio super partes? È Cristo… Infatti, Gesù, accertate sul campo – facendosi uomo – le ragioni dell’umanità, di cui Giobbe è rappresentante (sia pur estremo), libera Dio dalla sua onnipotenza “senza coscienza” e lo trasforma in un Dio d’amore.

Il libro di Giobbe è, quindi, il “manifesto” del turning point nei rapporti tra Dio e l’umanità; il senso di questa “sacra rappresentazione” – un dramma teandrico – secondo l’assunto junghiano sarebbe questo:  la vera redenzione che Cristo mette in atto è quella del Padre. Tesi, quella di Jung, quanto mai ardita, da intendersi soprattutto in chiave simbolica e psicanalitica, ma che rivela la fecondità delle interpretazioni cui può portare il libro di Giobbe: riflessioni, non solo sull’uomo – è così che, in genere, il libro viene letto – ma, soprattutto, su Dio [11], “pomo di discordia” nella Bibbia ebraica[6] e, spesso, per gli stessi credenti. Un Dio che si rivela, nella forma più piena e matura, nei Vangeli, ma che, nel suo “divenire” e “maturare”, passa dal Dio di Giacobbe a quello di Giobbe.

[5] Il libro di Giobbe ha 42 capitoli, dei quali i primi due e la fine dell’ultimo scritti in prosa, il resto in poesia. Si tratta di un grande dramma, una lamentazione, un dibattimento processuale, un palcoscenico su cui vengono messi in scena i temi portanti dell’esistenza: il bene (e la prosperità), il male (e la sofferenza), la giustizia e l’ingiustizia, la natura di Dio e il Suo rapporto con l’uomo.

Nella Bibbia, dopo il Pentateuco e i libri “storici”, c’è un terzo blocco di libri, chiamati “sapienziali”, che include: Giobbe, Salmi, Proverbi, Qoèlet, Cantico dei Cantici, oltre ai deuterocanonici Sapienza e Siracide (Ecclesiastico).

Per “sapienza” s’intende, sia l’elementare buon senso – attento alle situazioni quotidiane, al problem solving e al raggiungimento degli obiettivi – sia la ricerca del senso profondo della realtà e delle finalità più nobili dell’esistenza.

Il libro dei Proverbi è, probabilmente, il più antico tra i testi sapienziali: oltre a contenere massime destinate alla formazione culturale e pratica, tratta della dottrina tradizionale sulla retribuzione: ogni azione ha la giusta sanzione; il bene fatto è remunerato con il premio e il male con il castigo. Ed è proprio questa dottrina a essere messa in crisi nel libro di Giobbe: Giobbe è un “giusto”, prima premiato e poi sottoposto a prove durissime.

Sulla stessa linea di Giobbe si pone il libro di Qoèlet, che mette in luce le molteplici contraddizioni dell’esistenza. Ma la sua critica della sapienza tradizionale, considerata fin troppo schematica e ottimista, risulta ancor più radicale (Ravasi considera Qoèlet “fratello di Giobbe”, ma a livello estremo). Pur senza risolvere i numerosi interrogativi che pone, Qoèlet (“colui che anima l’assemblea”), apparentemente agnostico, se non proprio ateo (tutto è vanità, tutto è nulla), alla fine si palesa un credente: infatti, se da un lato invita a godere degli aspetti positivi della vita – dato che tutto passa, tutto finisce, tutto fugge via – d’altro canto ricorda che ogni azione sarà giudicata da Dio.

[6] «Nella Bibbia ebraica, nessun altro essere umano vien fatto oggetto di affermazioni tanto altisonanti come quelle riguardanti Giobbe, pronunciate addirittura da Dio […] Di nessun altro viene detto che la sua condotta e il suo destino divengono oggetto di discussione fra gli esseri celesti (1,6-12; 2,1-6). Per la loro gravità e il loro accumularsi, la sventura che lo coglie e le piaghe che gli vengono inflitte rappresentano il colmo di quanto ci si immagini possa accadere a un essere umano. Per l’asprezza dei lamenti che contengono, i suoi discorsi a Dio oltrepassano tutto ciò che altrove si può trovare nella Bibbia ebraica. E nessun altro viene degnato di una risposta divina paragonabile a quella dei grandi discorsi di Dio dei capp. dal 38 al 41.» (v. in Rolf Rendtorff, Teologia dell’Antico Testamento, Vol. 1, Claudiana, Torino 2001, p. 360).

Nel dialogo coi suoi tre amici – e con Eliu, il predicatore di giustizia – che rappresentano le ragioni della sapienza tradizionale, Giobbe sostiene che la sofferenza del giusto costituisce una profonda ingiustizia, mentre i suoi amici lo considerano un peccatore giustamente punito. A Giobbe non rimane che appellarsi a Dio, a cui chiede conto del Suo comportamento ingiustificabile. Dio interviene, non per dare spiegazioni, ma per invitare Giobbe all’umiltà dinanzi a un problema che oltrepassa la capacità di comprensione dell’uomo. Alla fine Giobbe giunge alla vera conoscenza di Dio e, per quanto non gli sia restituito quanto perso, viene premiato in misura ancora maggiore rispetto alla sua condizione iniziale.

Dice di Giobbe Massimo Cacciari: «Ma chi è Giobbe? Ecco il punto che non è stato mai compreso. «Sed tamen ad onnipotentem  lo­quar»  (13,3):  per conoscere me stesso.  È questa la do­manda che Giobbe vuole rivolgere a Dio, diretta­mente,

senza intermediari: è la ‘colpa’ di non cono­scersi che egli vuole affrontare; è questa la ‘speran­za’ che egli ripone nella ‘discussione’ con Dio. Ciò che gli è capitato è certamente segno della sua na­tura, appartiene al suo essere – e questo essere gli ri­mane indecifrabile. A chi chiedere, in quale spec­chio riflettersi, se non nel proprio stesso Fattore? Nessuna presunzione, perciò, nessun’arrogante pre­tesa di ‘misurarsi’ con Dio, ma il disperato ardore del desiderio di conoscersi in Lui. E forse, badi: forse, Dio risponde.» (da Della cosa ultima, Adelphi 2004).

[7] Satana, anzi il “satan”, in Giobbe è solo un funzionario ispettivo della corte celeste: una sorta di pubblico ministero, che non rimane, però, fermo dietro al banco dell’accusa, ma gira per la terra “spiando” (satan: l’accusatore, l’avversario – ma dell’uomo, non di Dio, almeno nel libro di Giobbe, dove peraltro satan compare solo all’inizio e poi non ha più alcun ruolo nella storia. E né Dio lo critica, cosa che invece fa con i tre “amici” di Giobbe). Analogo è il significato di “diavolo” (diabolos: colui che divide), che nel Cristianesimo assume la connotazione specifica di entità malvagia e spirito maligno – con antecedenti nei daeva del Mazdeismo (Zoroastrismo), nell’apocalittica apocrifa ebraica e presso gli Esseni.

[8] Teologia e teodicea: Quest’ultima indaga sul volto di Dio (chi è Dio?), sul Suo rapporto col mistero del Male (se Dio è buono, perché allora il male?) e su come esercita la giustizia (esiste un ordine nel mondo?). Quanto alla prima, nel libro di Giobbe parliamo di teologia “sapienziale”. Sempre nella mia tesina scrivevo: «più che a miti ci troviamo di fronte a ”eziologie metastoriche sapienziali”, ossia a una narrazione solo apparentemente storica, con una sua trama di fatti ma con un intento filosofico-teologico, quindi ‘sapienziale’ ed esistenziale. Il racconto vuole risalire idealmente alla sorgente della storia umana, cercandone, eziologicamente, le cause, il senso e la finalità: è una ‘metastoria’ fondata su tipi e archetipi che vogliono svelare la scaturigine del Bene (creazione) e del Male (de-creazione), mettendone in luce le dinamiche esistenziali, proiettate su uno sfondo e télos universalistico, e illustrando le condizioni affinché il primo prevalga sul secondo (ri-creazione).»

[9] Con riferimento alla “faccia nascosta di Dio”, secondo un assioma cabalistico: demon est deus inversus; ossia, “il diavolo è l’opposto di Dio”; meglio: “l’altra faccia di Dio” – nel senso che, a seconda delle situazioni, Dio si comporta in un modo o nell’altro, essendo al di là del bene e del male. Nel libro di Giobbe viene posta la domanda fondamentale: il Male è al di fuori di Dio o è “dentro” Dio? La Bibbia abbonda di esempi in cui Dio è “causa” del male della vita delle persone e del mondo: «… Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo.» (Is 45,7). Secondo Amos 3,6: “se una città viene colpita dal male, ciò è per volontà divina”. Ma capita anche che Dio “si penta”.

Allora, si Deus est cur (unde) malum? Per la Qabbalah Dio si è contratto (autolimitato) – Tzimtzum – per far sì che l’universo potesse esistere: ed è proprio per questo che il creato non ha una piena esposizione alla natura infinitamente buona di Dio.  

[10] Grazie al rîb (lite giuridica), alla fine del libro qualcosa si rompe e avviene una mutazione improvvisa e decisiva: sia Dio sia l’uomo aprono gli occhi… Secondo Jung, Giobbe è il “punto di rottura” nell’equilibrio tra Dio-creatore e uomo-creato.

Ed è questa “crisi” che rende “necessario” il cambiamento in Dio stesso e che porta all’incarnazione, ossia a Gesù.

[11] Nell’Antico Testamento la divinità è conosciuta sotto vari nomi, talvolta maschili (Elohim, Adonai, El, sino a Baal), talora femminili (Ashera, Regina del cielo). Alla fine il Nome del Dio d’Israele è JHWH, l’impronunciabile Tetragrammma.

In Es 20,2-3 (e non solo) il Dio d’Israele è individuato come il Dio che ha fatto uscire Israele dall’Egitto, dalla condizione di schiavitù: è quindi il difensore dei poveri e degli oppressi, non il Dio-Re alla Baal dei miti cananei o il Marduk che diventa re e legittima la regalità in Babilonia (v. anche in: Jorge Pixley, Dio, pomo della discordia nella Bibbia ebraica; in AA.VV., “Le molte voci della Bibbia”, Concilium 1/2002 – Edizioni Queriniana, Brescia 2002, pp. 15-24).

 

 


 

Nessun commento: