VOCAZIONE
Copiare, mai imitare
“I mediocri imitano, i geni copiano. Imitare vuol dire rifarsi al modello e infatti gli imitatori sono tutti mediocri. Copiare vuol dire appropriarsi del modello. Rimasticarlo.” Il camerata Giorgio Albertazzi recitava come lui. Così pure Ralph Waldo Emerson, il filosofo ‘trascendentalista‘ (e trascendentale): “il vero intellettuale parla per esperienza propria, non per imitazione degli altri; le sue parole sono cariche di vita: insisti su te stesso, non imitare mai.” Vita versus Morte. E il Male? Cupio imitandi… – vuole sempre imitare, duplicare. “Il male: la cieca ubbidienza, la volontà di imitazione, di omologazione.”
Copiare, mai imitare… Ma non ogni modello valeva la messa. Meglio l’unicum (anche se amaro). Lorenzo era elitario (ma anche, ossimoricamente, sociale). E non solo ‘evocatore’, anche ‘provocatore’. E-vocava – usciva dal coro – per pro-vocare, dar fiato a nuovi voci. Alla fine l’unica cosa che gli rimaneva era… invocare.
Fino ad allora solo vocalizzi. Ma ora basta coi provini, voleva calcare le scene. Non più come spalla. In lui c’era l’urlo dell’èlite contro il can can della canaille. E in questo il suo cuore batteva sempre a destra. E talvolta entrava in sintonia (un po’ sistole un po’ diastole) con Steiner (Rudolf, ma anche, su altre vette, George): “L’uomo nobile è il giudice di sé stesso. L’uomo ignobile ne è soltanto l’avvocato difensore.” E più in alto: “L’’uomo superiore’ che gradualmente cresce dentro di te, dopo anni di paziente disciplina, può diventare il ‘sovrano interiore’ che domina dall’alto le situazioni della vita.” Sì, Lorenzo era per l’’Uomo Nobile’ (anche alla Meister Eckhart). Lui era così. In buona compagnia. Anche di Martin Lutero (non per il colore, ma per il cuore): “Così io sono: non posso essere altrimenti.”
Quanto all’architettura, si destreggiava… Lorenzo, erede del futurismo, parteggiava per Zaha Hadid, memore di Niemeyer e del primo Meier (quello dei Five – batti cinque – non dell’Ara Pacis, less than zero). Sulla scia di Boccioni e Sant’Elia, dell’audacia ma anche del calcolo. E di Calatrava, genio e gesto, secondo alcuni maldestro (ma, quanto a gusti e retrogusti, Lorenzo era anche più eccentrico).
Benn, invece, aveva fatto centro: “Lo stile è superiore alla verità: reca in sé la prova dell’esistenza.” E Lorenzo amava il ‘Grande Stile’. Per poi stilettarlo. Sfregiarlo, sfrangiarlo, friggerlo. Eros, eresia, eroismo, arte, ieraticità. Stile come humanitas. E areté. Come al solito Lorenzo, di buone letture (anche su siti off-limits per occhi miopi), era un ariete: voleva sfondare ogni porta, eclettico com’era al massimo grado. Tra baroque e minimal. In perenne tensione – roccheggiante – tra archetipo e futuro adveniente. E con la pressione dell’oggi, da ‘rivoltare’ e ri-generare. Dies irae, annus terribilis, anno zero. Hinc sunt leones.
“Quando l’arte novecentesca, sovrastata dal sapere scientifico e dalla massificazione antielitaria dei processi di produzione industriale, incomincia a perdere la sua funzione di educazione estetica, di formazione del gusto, di relazione identitaria con i sentimenti, le passioni, la religiosità di un popolo, finisce per diventare un esercizio retorico individuale, ipersoggettivo, nichilista. L’arte non ha più nessuna funzione, e così pure quell’arte che si chiama architettura”. Così Stefano Zecchi, esteta di conio. E Lorenzo? A brand new bag. Amante del nuovo, ma sensibile al fascino ‘antico’. Moderno e antimoderno, ossimorico anche nell’arte e nell’architettura. Minimalista ma pur gaudente (dello ‘stile’ – e stiletto – alla Gaudì e alla Frank O. Gehry, per intenderci)
In-nocente, gen-tile. In-contaminato, eccellente nella virtù. Ma mai vittoriano (e con la profezia di Victoria, la predicatrice amateuse, che continuava a vellicarlo, e pizzicarlo, corda su corda). Semmai, alla valeriana. La triade vitruviana firmitas, utilitas e venustas (con la concinnitas a far da volano) in lui faceva da pendant alla baudelairiana ‘lusso, calma e voluttà’. L’architettura, come per Cecil Balmond, poliedrico guru dell’ingegneria, è “molto più che costruire edifici. La struttura dà significato alle cose. Persino quando devi sostenere una discussione a parole, se non hai la struttura, non hai nulla.” E Lorenzo era ben strutturato. Soprattutto in filosofia. Lui a Mammona aveva preferito Sophia.
Lorenzo era un filosofo. Del sofà più che del boudoir. Ma pur sempre (e sempre) filosofo. ‘Filosofo della libertà’ (così era stato sdoganato da qualcuno – anche di sinistra – il suo ‘padrino’, Evola. Vola Julius, vola…). Ma anche ‘filosofo della responsabilità contro il nichilismo’ (idem – così parlò Zecchi). Architetto nella mente, pensatore nello spirito. O viceversa. Il suo corpo era attraversato da entrambe le correnti (la filosofia lo calmava, l’architettura lo ‘agitava’: un’altalena di dopamina e serotonina a cicli lunari – il testosterone verso il grande meriggio…), cui si aggiungeva la ‘levità’ del ‘nonsense’ (scherzava e rideva come un fanciullo, o come uno dei ‘vitelloni’ di Amici miei). Filosofo alla Simpsons e alla Doctor House. Ironia, creatività, amore del paradosso, la triade dell’’Unico’.
Il filosofo dev’essere un artista che fa dell’uomo stesso la sua materia prima. Così aveva letto da qualche parte. Forse da Nietzsche. No, pardon (un repechage di memoria), Giorgio Locchi, uno sulla via di Evola. E con lui – anzi loro (compreso Adriano Romualdi, Alain de Benoist, ma anche Deleuze e compagni) – Lorenzo, il fascio-comunista (quasi ex: ma l’uomo è sempre ‘politico’, anche, e soprattutto, quando lo nega) ormai sempre più jahvista e, soprattutto, gesuano (bagnato dall’ultima pioggia), aveva proclamato la fine della vecchia filosofia. Eppure, anche lui era intriso di quel sapere. Se non avesse attinto a quelle due fonti – Destra e Sinistra (con i filtri e i setacci che lui stesso aveva posto, per andare oltre l’uomo comune) – non sarebbe arrivato lì dove era arrivato, e dove voleva arrivare. Non poteva dimenticarselo. E lui, ex angry young man, alla John Osborne, non ricordava più con rabbia.
I filosofi sarebbero stati gli ‘oltre-uomini’ dell’avvenire… Sì, la ‘pratica filosofica’ lo calmava e lo ricaricava (altro che coca o prozac… per non dire del cialis). Del resto era italiano. Legato (con un filo srotolabile all’infinito) alla terra maestra di Sophia. L’Italia, figlia della Grecia, mater et magistra della ‘Sapienza’ germanica. Kant, Hegel, Nietzsche, Heidegger e l’austro Wittgenstein erano un po’ italici anche loro. E poi, Lorenzo era ‘connesso’ un po’ con tutta la Mitteleuropa: Schelling, Schopenhauer, Stirner, pure Weininger e Michelstaedter. Lui, in fondo (de profundis), si sentiva italiano e tedesco. Latino e teutonico. Un po’ ostrogoto. Ma sempre tonico…
Un unicum, sia pur duale. Dolce e amaro. Negramaro. Lacrima Christi (e un po’ di robusto primitivo). Un astragalo tra base e fusto, all’inizio; tra fusto e capitello, ora. Si stava accostando al timpano…
Vicino al trino, mai dimentico della quaternità junghiana. Passato, presente, futuro (e l’eterno – andata e ritorno). Pescava nel primo, il passato, specie se ‘mitico’; plasmava e faceva lievitare nel presente, tridimensionale, alchemico, mitopoietico; proiettava (e progettava) nella (e per la) ‘terra dei figli’, poetica (senza per questo essere patetica). Era, prosaicamente, architetto e filosofo (già ‘figlio dei fiori’, poi ‘figlio della lupa’, ma sempre ‘figlio di p…’), un’endiadi, questa, suggestiva, espressiva ed esplosiva. La sintesi preferita da Fuksas, l’architetto tra le ‘nuvole’. E come lui, poeticamente, amava il cinema. Ogni progetto di Lorenzo era un action-movie: campi, controcampi, zumate, viste dall’alto, dall’esterno, dall’interno. Una cine-plastica, una fusion spazio-temporale. E lui sempre fuso…
Tratto da Gocce di pioggia a Jericoacoara
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