lunedì 30 luglio 2018

GOCCE DI PIOGGIA A JERICOACOARA (Gocce)



GOCCE DI PIOGGIA A JERICOACOARA
(Gocce)

Tempo d’estate, tempo di letture.
Eccovi, dunque, due assaggini dal mio “Gocce di pioggia a Jericoacoara” (gli incipit dei capitolo 1 e 11. Tanto per gradire.

L’INCONTRO


È dolce la stagione della raccolta, quando
il guardiano è lontano.
Plutarco

1

«Ma quanto sei strana!»
     Il bronzeo addetto alla piscina irruppe da chissà quale anfratto, fiondandosi tra le sdraio e gli ombrelloni strapazzati dalla pioggia con la sfrontatezza di chi vuol battere sul tempo un sole paonazzo e pieno di voglie tanto improvvise quanto prevedibili. Poi il bay-watch prestato alla terraferma cambiò di colpo marcia e, ciondolando – caracollando – tra le pozzanghere, guadagnò il bordo-vasca col piglio di chi getta l’amo per adescare uno squalo.
     L’occhio umido (non solo di pioggia) prese a dardeggiare il fluttuante contorno sinuoso che dava un senso all’asettico rettangolo d’acqua, col fermo proposito di colpire il bersaglio mobile al primo colpo.
     «Solo la pioggia o la luna riescono a fare il miracolo. Solo loro riescono a farti tuffare...»
     Offuscando le parole-esca e mettendo a tacere gli ultimi vagiti meteo, il sorriso (invocato) di lei fece capolino tra le increspature e il cloro, complice e promettente. Nessun indizio, niente che facesse preludere all’epilogo politicamente scorretto. Non la gimcana di labbra sulla pelle che il bagnino aveva messo in conto tra i sogni nel cassetto (insieme a qualche tuffo con la bella naiade), ma solo una risposta da brivido blu:
     «Ho il cuore pieno di ceneri e di scorza di limone. Andrò solo dentro me stessa. Mi troverai sempre là...»
      Scagliato il dardo al curaro sul san Sebastiano di turno (il bagnino), paga dell’effetto sorpresa, la bionda ondina riguadagnò il bordo-piscina. Salì come da videoclip la scaletta cromata, schioccò un solare ‘ciao!’ da trailer al gallo cedrone dall’ala spezzata e, sfioratane l’epidermide bronzea (di colpo sbiancata), gli lasciò – sapore di sale – il chimerico assaggio di quel suo tatuaggio sfarfalleggiante sulla pelle bagnata.
     Gaia era fatta così: non solo tattoo ma anche taboo. Una vita esaltata da brevi ma intensi deliri, la magia di lunghi silenzi bruscamente interrotti da taglienti ossimori, paradossi, voli pindarici, esternazioni frappant. E se qualcuno (non pochi) sostava, rapito, davanti a quest’opera d’arte (e non da tre soldi...) – un taglio di Fontana sulla tela bianca della vita – veniva immancabilmente colpito da un’inattesa sindrome di Stendhal. 
     Gaia o dell’avventura dell’esistenza, un ossimoro vivente più che un paradosso. Tutto questo si sarebbe potuto dire – a posteriori – di Gaia (anche il nome). Ma ormai il fugace biondo oggetto del desiderio era fuori campo e a Lorenzo – il terzo silenzioso incomodo (convitato di pietra, nel vero senso del termine) – non rimase che rituffarsi nelle pagine appena lambite da una di quelle piogge lampo settembrine che il Gargano riservava ai suoi ultimi ospiti.
     Il turbine (anche sensoriale) era ormai passato, senza lasciare – così il buon Lorenzo pensava – tracce: lui di Gaia conosceva – e gl’importava – solo la Scienza…
                                                      
                                            LO SCONTRO

Lui non feriscono l’armi,
 Lui non brucia il fuoco,
Lui non bagnano l’acque,
 Lui non dissecca il vento.
 Bhagavadgita

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          
11

Gaia nuotava come una sirena. Il due pezzi – viola con bordura verde under, il top verde integrale – era quello dello scoop domenicale. Lorenzo non era da meno (anche riguardo al monokini, rigorosamente blu elettrico), da buon tritone o delfino memore delle sue origini ioniche, ma mai applicate così alla lettera come in quest’occasione. Anzi, se nella piscina le sue evoluzioni erano state piuttosto sottotono (più che altro, mono-tono), nelle frizzanti acque della baia si aprirono a ventaglio. Toniche, in un pavoneggiamento spontaneo, schietto, geneticamente non modificato.
     «Dai, raggiungiamo Portopiatto a nuoto.»
     In altri tempi questa sarebbe stata una provocazione che Lorenzo mai e poi mai avrebbe accolto. Specie da quando, a dieci anni, aveva rischiato di annegare. Lui, il ragazzino timido e solitario che si prefissava una meta – una boa, una barca, i pali delle cozze –, per poi raggiungerla in nuotata solitaria, sempre però con l’ausilio delle sue tanto amate pinne. Solo che quel settembre di una quarantina di anni prima (sì, proprio settembre...) qualcosa non era andato per il verso giusto. Anche perché aveva introdotto una variante: niente pinne, niente sotterfugi, ad armi pari.
     Un’andata da favola – a piedi nudi alla meta (era però solo a metà dell’opera) – ma, al ritorno, sullo sfondo, l’Aventino: la fatica si fece sotto. E lui, avventato, rischiò di andare a fondo. Le forze, avventizie, gli vennero meno a un centinaio di metri dalla riva, una bella distanza per la sua acerba età, ma Lorenzo, pur in preda al montante panico, non chiese aiuto, rischiando così di affogare – e di mandare all’aria (anzi sott’acqua) il progetto di vita riservatogli ab eterno. Virile dignità, terrore, assenza di paura? Viltà, forza di volontà? Difficile da dirsi. Uniche certezze: nessun’anima viva nei pressi, profondo il mare, le sue forze a fondo.
     Eppure, non sa come, riguadagnò la riva senza che i suoi e nessun altro (almeno nel mondo visibile…) si fossero resi conto della sua ‘distretta’. Il piccolo Lorenzo non lasciò trasparire nulla, ma da allora il giocattolo si era irrimediabilmente rotto. Solo da qualche anno aveva ripreso, prima timidamente poi con una certa naturalezza, ad avventurarsi un po’ oltre, ma solo un po’, mai al largo. Malgré tout, il mare aperto era sempre lì pronto ad accoglierlo. E lui, dopo l’incontro con Gaia, non avrebbe mai più risposto con uno sdegnoso rifiuto...
  


  

venerdì 27 luglio 2018

KATANA


KATANA
Gocce di pioggia a Jericoacoara: questo il titolo del romanzo. Anche lui multilivello, olografico, animico. “Romanzo-rapsodia, fervido di vita e voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore … vorticoso nel suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e trepidazione, ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura vivace, geniale, estetizzante, ma tutt'altro che décadent, capace di affratellare Policleto e i Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie, dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da giocoliere della parola e da funambolo della nuance.” Così la “scrittrice arya”, quella che maneggia la penna come un cultro (o una katana).
    Lost (era la mia ultima spiaggia). Fiera delle vanità o vanto della fierezza? Ricerca di senso o senso della ricerca? Spazio in cerca di forma, simbolo dietro il segno? Ai posteri l’ardua sentenza (nel frattempo, ero in languida attesa del colpo di derrière – la fortuna aiuta gli audaci; ma anche, più titanicamente, i violenti s’impadroniscono dell’Olimpo…). Ne ero comunque fiero. Vanità delle vanità. E poi, avevo voglia d’interferire…
    Una ferita nell’epidermide del mondo; poi… più dentro, sempre più giù, fino al nocciolo. Volevo penetrare. E non solo nel mondo. In corpore vivi. Mi sentivo investito da una missione (e sotto il vestito? Niente. Volevo correre nudo alla meta). Sì, era giunto il momento. Sono un uomo d’oggi, Sono solo. Ma ho ancora gli dèi, al massimo Dio” (e forse anche qualche idea…). Mon Drieu! (La Rochelle – non sono solo rocchettaro). Il tempo era ormai maturo (il tempo, questa tigre che divora…): il chronos aveva scandito il kairòs (e questo aveva battuto sul tempo l’aion). Non avevo mangiato la mela acerba e non mi sfagiolava certo la frutta andata. Aspetto la frutta di stagione… Time passes by.
    I tempi… Mesi, settimane, giorni. Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio. Dal fiat lux al punto omega, l’alfa ne aveva fatta di strada per arrivare al traguardo (l’epilogo del romanzo). Se Jack Kerouac ci aveva messo solo tre settimane (da raccontare) per buttar giù le trecento pagine rollanti sui quaranta metri di carta da telescrivente, il mio viaggio era stato (un) mosaico. “Ho ripreso la penna ed ho cercato di rimettermi al lavoro; ne avevo fin sopra i capelli di tutte queste riflessioni sul passato, sul presente, sul mondo. Non domandavo che una cosa: che mi si lasciasse finire in pace il mio libro.” Sartre, che nausea… Ma alla fine la carovana aveva raggiunto l’oasi (e vicino c’è il mar morto – a quando il bosco?).
     The beat goes on. Devo andare e non fermarmi finché non sono arrivato. Andare dove? Non lo so, ma devo  andare... Di eone in eone, il cammello si era fatto leone… Così canticchiava il mio fanciullino subliminale (“È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi … ma lagrime ancora e tripudi suoi”). E mai invecchiava il pargolo, si rigenerava di aion in aion (negli abissi della mia interiorità il tempo, nelle sue varie coniugazioni, e congiunzioni, scorreva molto più velocemente che all’esterno – il mondo immaginale ha i suoi ritmi, le sue pause, le sue frenesie. E poi, cominciava a intravedersi l’eterno ritorno:Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai”).
N.B. Tratto dal mio inedito “Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?”