BRAZIL
Ancora un tralcio dal mio romanzo “Gocce di pioggia
a Jericoacoara” (così “definito”, da una intellettuale “non-conforme”, nonché critica
letteraria, peraltro molto “tosta” – una che non fa sconti a nessuno): “romanzo-rapsodia, fervido di vita e voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo
di ingenue aurore … vorticoso nel suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di
tensione e trepidazione, ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura
vivace, geniale, estetizzante, ma tutt'altro che décadent, capace di
affratellare Policleto e i Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed
entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie, dall'oscillare inarrestabile,
ebbro … una scrittura da giocoliere della parola e da funambolo della nuance.”
Dondolandosi
dolcemente verso il mare. Bambina dal corpo dorato dal sole di Ipanema. Il suo
dondolio é più di una poesia... Nella mente di Tomás il
passato e il futuro di Arianna scorrevano fusi insieme. Dazed and confused.
«Allora, che ne dici?
Facciamo prima un salto a Bahia, poi Rio, San Paolo e, infine, Brasilia» fece
Tomás, angelico.
«E naturalmente, uno zompo alle cascate
dell’Iguaçu. Non che siano poi così alte, anche se superano quelle del
Niagara (in ogni caso i cento metri e passa non sono uno scherzo – ma anche
quelle delle Marmore, a lei più vicine, e pure più alte, non erano una
‘bagatella’. Il ‘massacro’ era comunque alle prime gocce…).
Duecentosettantadue cascate… uno scenario da favola, davvero indimenticabile. Unforgettable. E poi, ciliegina sulla torta (o meglio, un po’ di peperoncino piccante): la ‘garganta do diablo’ – la ‘gola del diavolo’. Quattordici cascate che si riuniscono e si riversano in un dirupo lungo novanta metri: un salto mortale dall’impatto assordante e con una nebulizzazione così intensa da provocare un arcobaleno perpetuo, e da lasciare sempre umida la foresta circostante, giustamente rigogliosa. A proposito, lo sai che l’arc en ciel è il simbolo della Nuova Era? Siamo all’alba del nuovo eone e tu ne sei la musa!»
Duecentosettantadue cascate… uno scenario da favola, davvero indimenticabile. Unforgettable. E poi, ciliegina sulla torta (o meglio, un po’ di peperoncino piccante): la ‘garganta do diablo’ – la ‘gola del diavolo’. Quattordici cascate che si riuniscono e si riversano in un dirupo lungo novanta metri: un salto mortale dall’impatto assordante e con una nebulizzazione così intensa da provocare un arcobaleno perpetuo, e da lasciare sempre umida la foresta circostante, giustamente rigogliosa. A proposito, lo sai che l’arc en ciel è il simbolo della Nuova Era? Siamo all’alba del nuovo eone e tu ne sei la musa!»
Arianna si risvegliò dal suo ‘sonno’
(nella parte finale del ‘film’, scavalcato Lorenzo, era passata direttamente
dalle braccia di Rinaldo a quelle di Morfeo) e sorrise, questa volta in estasi.
Il turbamento era scomparso – un temporale di fine estate (a proposito, ma lì,
in Brasile, che stagione era?) – e aveva lasciato il posto a un improvviso,
montante, desiderio erotico, ardente, dilavante, primaverile, che le strisciava
e strusciava dentro (facendole risuscitare antiche passioni e ricordi mai
appassiti: d’altronde, le cascate dell’Iguaçu le avevano fatto lo sciampo da ragazza).
Solo allora, di nuovo lucida su tutti i
fronti (e i sensi), si accorse del tatuaggio sul polso di Tomás, sul quale fino
a quel momento i suoi occhi avevano stranamente glissato. Eppure, benché non
appariscente, era chiaramente visibile. Era pur vero che lei non badava troppo
ai particolari: amava di più le vedute d’insieme. E per questo negli ultimi
tempi aveva un po’ tralasciato l’interior design – l’angolo dei dettagli – per
ritornare a casa, all’aria aperta, all’architettura vera e propria, al Grande Stile. E il progetto per la Grande
Mela era proprio frutto (esotico) di questo suo outing. Una stilettata raso
terra (Ground Zero).
«Ti piace? – Tomás avvicinò il polso ad
Arianna – È il tatuaggio di un’iguana, il rappresentante più
caratteristico della fauna dell’Iguaçu.»
La sua mano le sfiorò il viso, si soffermò
sulle guance, si rigirò su una fossetta e un dito, sfuggito al controllo delle
altre falangi, le toccò le labbra carnose. Un po’ Julia Roberts, un po’
Angiolina Jolie (anche se, a onor del vero, non assomigliava a nessuna delle
due. Nemmeno a Steve Tyler o al suo amato Mick Jagger…).
«Ma, prima delle cascate, un tuffo alla
Bahia di Jorge Amado, la Roma nera dalle trecentosessantacinque chiese – una
per ogni giorno dell’anno – e dai diecimila terreiros di candomblé,
umbanda e macumba (una trentina al giorno…). Poi andremo a Rio, San
Paolo e chiuderemo con Brasilia, la visione ‘a uccello’ di San Giovanni Bosco.
Devi sapere che il santo (e veggente), nel 1883, durante uno dei suoi
viaggi mentali, sorvolò lo stato di Goiás e vi atterrò, quasi richiamatovi da una ‘forza’ calamitante:
vi aveva intravisto (poco profeticamente) la terra del latte e
miele… Ma ora cos’è? Deserto di pietra, oasi di verdi cristalli, mar morto
dell’occulto (da quale pulpito!). Brasilia è un aeroplano (un’astronave?)
che affonda nel lago artificiale. Una cattedrale nel deserto (la Piazza dei Tre
Poteri): il duomo ultramoderno (e ultraleggero) dalla cupola a corone di spine.
Città simbolica, esoterica, ermetica, dai numeri sacri (e profani) che si
rincorrono nelle superquadras e profanano i luoghi: sei, numero
dell’imperfezione umana, primo passo verso i demoni della vita e della morte;
undici, numero del peccato, e dei petali di tanti rosoni gotici. Questa è
l’esangue Gotham city del Brasile, succhiata dal vampiro del progresso e dalle
larve del passato.»
A Tomás Brasilia evidentemente piaceva e
così si dilungò, scendendo dal generale al particolare, allo stesso modo in cui
Lorenzo, quando era in vena ‘scritturistica’, passava dal capitolo uno al
capitolo due della Genesi (lui diceva, affettatamente, il Genesi), spiegandole il perché delle ripetizioni e delle
differenze nel racconto biblico.
«Brasilia, in ogni caso, nel suo
straniamento dechirichiano, ti affascinerà: “città burocratica, kafkiana,
monumentale e ottocentesca nell’impianto, meccanicamente razionalistica nelle
’Super Quadras’” – così la definiva Bruno Zevi. Ci vollero settantasette
anni – altro numero ‘magico’ – affinché il sogno di Don Bosco cominciasse a
realizzarsi. Il 30 agosto 1883 profetizzò: tra il 15° e il 20° parallelo
nascerà una grande civiltà. Nel frattempo, la costituzione repubblicana del
1881 (diciotto al diritto e al rovescio), all’articolo 3 (uno e trino)
conferiva allo stato la disponibilità di 144.000 (come gli ‘eletti’ dell’Apocalisse
– e dei Testimoni di Geova) kmq di distretto federale per costruirvi la nuova
capitale. Settant’anni di oblio, poi nel ‘53 (totale 8: l’infinito ‘verticale’,
il numero di Dio) il presidente Vargas diede le coordinate della nuova
capitale: circa 17° latitudine sud e 47° longitudine ovest, due numeri iellati,
o comunque mortali, per voi italiani. E l’anno dopo si suicida... Ma
Kubitschek, nel ’56 (totale 11: il numero del peccato) dà l’incarico a Oscar
Niemeyer (guarda un po’, uno degli architetti preferiti da Lorenzo, pensò
Arianna) di costruire la ‘capitale più bella del mondo’. In definitiva, nel ‘60
capitale (settantasette anni dopo la visione di Don Bosco), nell’87 eletta
dall’Unesco tra i siti patrimoni dell’umanità. Questa è Brasilia: architettura-paesaggio
in una città senza paesaggio, uccello implume, astronave senza carburante.
Sessantasei livelli di umanità, dodici apostoli del mistero, tre dèi della
terra. Ma noi, Arianna, la faremo volare…»
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