KATANA
Gocce di pioggia a Jericoacoara: questo il titolo del romanzo. Anche lui multilivello,
olografico, animico. “Romanzo-rapsodia, fervido di vita e
voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore … vorticoso nel
suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e trepidazione,
ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura vivace, geniale,
estetizzante, ma tutt'altro che décadent, capace di affratellare Policleto e i
Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed
eresie, dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da giocoliere della
parola e da funambolo della nuance.” Così la “scrittrice arya”, quella che
maneggia la penna come un cultro (o una katana).
Lost (era la mia ultima spiaggia). Fiera delle vanità o vanto
della fierezza? Ricerca di senso o senso della ricerca? Spazio in cerca di
forma, simbolo dietro il segno? Ai posteri l’ardua sentenza (nel frattempo, ero
in languida attesa del colpo di derrière
– la fortuna aiuta gli audaci; ma
anche, più titanicamente, i violenti s’impadroniscono
dell’Olimpo…). Ne ero comunque fiero. Vanità delle vanità. E poi, avevo voglia d’interferire…
Una ferita nell’epidermide del mondo; poi… più dentro, sempre più giù,
fino al nocciolo. Volevo penetrare. E non solo nel mondo. In corpore vivi. Mi sentivo investito da una missione (e sotto il
vestito? Niente. Volevo correre nudo alla meta). Sì, era giunto il momento. “Sono un uomo d’oggi, Sono solo. Ma ho ancora gli dèi, al massimo Dio”
(e forse anche qualche idea…). Mon Drieu! (La
Rochelle – non sono solo rocchettaro). Il tempo era ormai maturo (il tempo,
questa tigre che divora…): il chronos aveva
scandito il kairòs (e questo aveva
battuto sul tempo l’aion). Non avevo
mangiato la mela acerba e non mi sfagiolava certo la frutta andata. Aspetto la
frutta di stagione… Time passes by.
I tempi… Mesi, settimane, giorni. “Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam
session d’una domenica pomeriggio.” Dal fiat
lux al punto omega, l’alfa ne aveva fatta di strada per
arrivare al traguardo (l’epilogo del romanzo). Se Jack Kerouac ci aveva messo
solo tre settimane (da raccontare) per buttar giù le trecento pagine rollanti
sui quaranta metri di carta da telescrivente, il mio viaggio era stato (un)
mosaico. “Ho ripreso la penna ed ho cercato
di rimettermi al lavoro; ne avevo fin sopra i capelli di tutte queste
riflessioni sul passato, sul presente, sul mondo. Non domandavo che una cosa:
che mi si lasciasse finire in pace il mio libro.” Sartre, che
nausea… Ma alla fine la carovana aveva raggiunto l’oasi (e vicino c’è il mar
morto – a quando il bosco?).
The beat goes on. “Devo andare e non fermarmi finché non sono arrivato. Andare dove? Non lo
so, ma devo andare...“ Di eone in
eone, il cammello si era fatto leone… Così canticchiava il mio fanciullino subliminale (“È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi … ma lagrime ancora e
tripudi suoi”). E mai
invecchiava il pargolo, si rigenerava di aion
in aion (negli abissi della mia
interiorità il tempo, nelle sue varie coniugazioni, e congiunzioni, scorreva
molto più velocemente che all’esterno – il mondo
immaginale ha i suoi ritmi, le sue pause, le sue frenesie. E poi, cominciava a intravedersi l’eterno ritorno:“Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai”).
N.B. Tratto dal mio inedito “Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?”
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