GIOBBE E IL CORONAVIRUS
Giobbe e il coronavirus. Paragone
azzardato, direte: fuori tempo, fuori luogo, fuori contesto.
Non poi
tanto, anzi… Nonostante il salto temporale, di millenni, entrambi sono “tipi” –
l’uno umano, troppo umano; l’altro
astratto, ma dagli effetti, ahimè, concreti – che si rincorrono nel tempo
(inteso come “Chronos”: il tempo ordinario, la “cronaca”). Ma ora, come ai
tempi di Giobbe, e soprattutto di Gesù,
si tratta di Kairos, di tempo
straordinario, speciale, anzi addirittura propizio e favorevole – per quanto, a
prima vista, non sembri (e in effetti, questo è un tempo tragico, fra danni e
lutti).
Ma
passiamo al tema, cogliamo l’attimo
fuggente… Giobbe e il coronavirus sono rappresentativi, tra le altre cose,
del “senso” della vita e del suo
opposto: il “nonsenso”. “Si tratta
della sporgenza della vita nel nonsenso rispetto alla quale qualunque
interpretazione religiosa appare come una «superbia infantile». È lo scandalo sollevato biblicamente da Giobbe: il dolore
dell’esistenza sfida l’ordine del senso mostrandone l’inconsistenza strutturale
[…] La sofferenza dell’innocente resta uno scandalo impenetrabile che resiste a
ogni decifrazione. Rispetto a questa indecifrabilità non si può più invocare il
disegno provvidenziale di Dio ma bisogna ammettere lo scandalo
dell’insensatezza del male provando, comunque, … a «essere colui che resta!»” (Massimo Recalcati, “Il complesso di Telemaco”).
Il dolore
dell’esistenza, la sofferenza dell’innocente, lo scandalo dell’insensatezza del male… Sì, nella vicenda di Giobbe
e nelle vicende dei tanti Giobbe di questi giorni – anzi, direi, di molta
dell’umanità, passata dai giorni delle “vacche grasse” a quelli delle “vacche magre”
– ritroviamo dei fattori comuni: la superbia (l’arroganza, l’hybris di Adamo), il dolore
esistenziale, la sofferenza
dell’innocente, l’indecifrabilità, l’insensatezza del male, la “sporgenza
della vita nel nonsenso”… Certo, nessuno si può definire, in toto, innocente (“non c’è nessun giusto, neppure uno …”
Romani 3:9-20); ma quanti operatori sanitari, ministri di culto – e tante altre
persone al servizio del prossimo – sono morti in questi giorni per effetto del
coronavirus… Ricchi e poveri, famosi e anonimi: il coronavirus, la grande “livella”!
Ma non mi voglio soffermare sul coronavirus, qualunque sia
l’origine – umana, diabolica, cinese, americana, pipistrello, incidente di
laboratorio, casuale, intenzionale ecc. –, ma desidero puntare l’attenzione
sulla figura di Giobbe, personaggio spesso trascurato nelle nostre letture
bibliche (al pari di altri libri “sapienziali”, quali l’Ecclesiaste e lo stesso
Cantico dei Cantici, “rilanciato” da Benigni, al di là del giudizio sulla sua
“interpretazione”). Libro, quello di Giobbe, tra i miei preferiti: non solo oggetto
di un mio sermone (come anziano di chiesa), ma di tesi per il mio corso di “Cultura
Biblica e Teologica” della “Facoltà Pentecostale di Scienze Religiose”.
Ed è proprio dalla mia tesi GIOBBE:
IL DRAMMA È DIO. Il Dio di Giobbe vs il Dio di Giacobbe che prendo spunto per queste riflessioni.
Che poi la scelta di Giobbe fosse appropriata per un articolo ai tempi del
coronavirus, ha trovato per me conferma quando, su VOCE PENTECOSTALE di gennaio/giugno 2018 – che stavo appena
leggendo –, nell’articolo COMUNIONE CON
DIO NELL’ERA DIGITALE, di Marco Piccolo (tratto dallo studio
presentato al Corso di Formazione Biblica del 14 aprile 2018), scovai questa illuminante, e quanto mai
attuale, riflessione: “Pensiamo davvero che la tecnologia possa definire lo
scopo della nostra vita? Il capitolo 28 del libro di Giobbe è un breve
componimento poetico che celebra l’innovazione tecnologica dell’uomo, ma è
anche un monito che ci ricorda le nostre limitazioni e l’impossibilità di
trovare la saggezza attraverso i nostri dispositivi. Possiamo esplorare le
profondità del mare senza trovare saggezza. Tutto l’oro portato alla luce non
rivela la saggezza. Possiamo essere esperti di tecnologia che alla prova dei
fatti si rivela priva della vera intelligenza. In un’era digitale ricca di
contenuti travolgenti, dobbiamo imparare a far tesoro di ciò che è più prezioso
nell’universo, vale a dire Dio. La più inestimabile sapienza e la conoscenza più
eccellente non sono incorporate in un nuovo dispositivo, ma si trovano in Gesù
Cristo (Colossesi 2:1-3). Solo Gesù può definire lo scopo e il significato
della nostra vita.”
Bene, conosciamo, anzi ri-conosciamo, Giobbe. Ma partiamo da Dio…
Consuma e si consuma, appare e scompare… (come Gesù sulla via di Emmaus). Un Dio absconditus (nascosto)
ma sempre presente: espansivo e sfuggente, scompare nell’abisso per poi
ricomparire; tirato in ballo, non si sottrae alle sue responsabilità, ma si
rivela nei fatti (fossero anche misfatti). Realtà vicina, di cui abbiamo
esperienza quotidiana – chiamato o non chiamato, creduto o non creduto –, ma,
soprattutto, Realtà Ultima. Insomma, Dio c’è: “»). «
«» («, il Signore, sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato anche a quelli
che non mi invocavano.» Romani 10:20),
avvertita o inavvertita: «Ecco: egli mi passa vicino e io non lo vedo;
mi scivola accanto e non me ne accorgo.» (Giobbe 9:11). Io
«Ecco il grande
paradosso: Dio, infinito ed eterno, si adatta e penetra in questa realtà che è
così fragile, sospesa, inconsistente. Ma ecco pure la grande intuizione: dov’è
Dio? Nella folgore? Nel terremoto? Nel vento impetuoso? Dio è nel “mormorio di
un vento leggero” o, traducendo più esattamente, Dio è una voce di silenzio
sottile. Non un silenzio che è triste assenza di suoni, ma un silenzio in cui
tutte le parole si compendiano.» (Gianfranco Ravasi). Questo perché, come ricorda Marco Piccolo nel suo articolo, Quando Dio è in silenzio, è in azione
(Abacuc 1:5) – La soluzione di Dio arriva
spesso da una fonte inaspettata (Abacuc 1:6) – I tempi di Dio sono perfetti (Abacuc 2:3) – Dio è degno di essere adorato, a prescindere dalle circostanze in cui
ci troviamo (Abacuc 3:17-18). In definitiva, Dio c’è.
Passiamo ora all’uomo: Giobbe è la storia di un credente. È il percorso travagliato, sia pur estremo,
che ogni credente può trovarsi a fare. Ciò
che è capitato a Giobbe è possibile, in varia misura, a chiunque (Dio compreso: in Gesù). Ma ciò che fa di lui un esempio è l’assenza di presunzione:
nessun’arrogante pretesa (hybris) di
misurarsi con Dio, solo il disperato desiderio di conoscerLo, e quindi
conoscersi. Nel
grido di Giobbe è condensato il “dramma umano”, espresso in modo palese o
intimo, che sia l’urlo disperato di un credente o il grido esasperato di un
agnostico. Quello di Giobbe è l’appello
insistente a un Dio
«» (Gianni Cappelletto, Giobbe.
Incontrarsi con Dio nella sofferenza). Nondimeno, «Nella Bibbia ebraica, nessun altro essere umano vien fatto
oggetto di affermazioni tanto altisonanti come quelle riguardanti Giobbe,
pronunciate addirittura da Dio […] Di nessun altro viene detto che la sua
condotta e il suo destino divengono oggetto di discussione fra gli esseri
celesti (1,6-12; 2,1-6). Per la loro gravità e il loro accumularsi, la sventura
che lo coglie e le piaghe che gli vengono inflitte rappresentano il colmo di
quanto ci si immagini possa accadere a un essere umano. Per l’asprezza dei
lamenti che contengono, i suoi discorsi a Dio oltrepassano tutto ciò che
altrove si può trovare nella Bibbia ebraica. E nessun altro viene degnato di
una risposta divina paragonabile a quella dei grandi discorsi di Dio dei capp.
dal 38 al 41.» (Rolf Rendtorff, Teologia dell’Antico Testamento, Vol. 1).
Giobbe si sente preso in trappola, in un gioco perverso
che non riesce a giocare (mi si passi l’espressione). Ma quando il gioco si fa duro i duri
cominciano a giocare… Invece di accettare
con rassegnazione questa indecifrabile volontà divina, Giobbe si erge a
obiettore (di coscienza): in disaccordo coi suoi amici, che pretendono di
consolarlo incolpandolo, non solo accusa Dio di averlo stretto in un cerchio
senza via d’uscita (Giobbe 3:23-26), ma
osa chiamarlo in giudizio (9:32), alla presenza di un arbitro capace di
dirimere la questione. E chi è, secondo Jung (ritorno allo psicologo del «»), questo giudice supremo, questo Dio
super partes? È Cristo… Infatti,
Gesù, accertate sul campo – facendosi
uomo – le ragioni dell’umanità, di cui Giobbe è rappresentante (sia pur
estremo), trasformerà quel Dio
apparentemente cinico e crudele (così appare a tanta umanità, anche in
questi tempi del coronavirus) in un Dio
d’amore.
Vediamo ora qual è (o piuttosto, come lo
interpretiamo) il “Dio di Giobbe”. Se il modello che sta alla base del “Dio di
Giacobbe” è palese – la fede e le azioni
dipendono da quello che si riceve da Dio e il rapporto uomo-Dio ruota intorno a
una catena causale – il libro di Giobbe si pone in palese contrasto con
questa prospettiva. Il testo inizia con una
questione cruciale (forse mai posta nella Bibbia con tale intensità): che valore ha una buona condotta, anche
“religiosa” o spirituale, quando è motivata da interessi personali? «Che fede sarà mai
quella di chi crede solo a motivo – e in funzione – di ciò che riceverà in
cambio?» (cfr. Giobbe 1:9-11).
È Satana a porre la questione (il satan,
nel Libro di Giobbe, è un funzionario eminente della corte celeste, una sorta
di P.M.) e a mettere in discussione un principio consolidato e generalmente
funzionante, così almeno si ritiene, come quello del quid pro quo: io do una cosa a te, tu dai una cosa a me…
Grazie... è facile per tutti essere buoni e pii se si possiede
tutto ciò che si desidera, ma lascia che metta le mani sull’uomo “buono e pio”
e vediamo se è davvero tale! «Qui viene formulato il tema centrale del
libro di Giobbe: come si comporterebbe Giobbe, il credente devoto in modo
esemplare, se le cose gli andassero male? È un problema che, con ogni evidenza,
non riguarda soltanto Giobbe, come singolo devoto; al tempo stesso, viene messa
in discussione la validità di un principio basilare della tradizione
sapienziale, presente anche all’interno del libro di Giobbe: il rapporto tra
azione e conseguenza, tra ciò che facciamo e come ce la passiamo. Giobbe se la
passa bene in quanto egli è devoto e
timorato di Dio? Oppure egli è devoto e timorato di Dio in quanto se la passa bene? Vi è forse una dipendenza tra le due
cose? E come dev’essere determinata? Nello sviluppo dei dialoghi, si mostrerà
come l’interpretazione di questo principio sia uno dei punti capitali del
conflitto che oppone Giobbe ai suoi amici.» (Rolf Rendtorff, op. cit.).
Dio, pur infinitamente superiore al satan, non si sottrae alla sfida. Certo della fedeltà di Giobbe –
fondata sull’”essere” e non sull’”avere” – concede libertà d’iniziativa al suo
agente provocatore: dopo l’idillio iniziale tra Dio e Giobbe, muoiono i figli
di questi, il bestiame gli viene rubato, non gli resta più nulla. Ma Giobbe non rinuncia a Dio. Satana
insiste e incalza: «Sì, così fan tutti… Continuano a credere e ad essere fedeli
finché non li tocchi nella loro persona.» (cfr. Giobbe 2:4-5). E
Dio permette anche questo (v. 6).
Giobbe, sotto attacco, mostra i primi segni di cedimento: sua
moglie lo spinge ad abbandonare Dio (2:8-9): perché restare fedeli a Dio se la ricompensa è l’infelicità? Gli
amici, che all’inizio condividono, forse sinceramente, il suo dolore, pian
piano, ligi alla teoria retribuzionista, cominciano a criticarlo, passando, da
consolatori, a suoi accusatori: Giobbe è un peccatore. È tutta colpa sua… (né
di Dio, né di altri, o della società, come diremmo oggi): Giobbe deve incolpare se stesso dei suoi guai. Il peccato ha come
riflesso il dolore: Giobbe si è avviato, inconsapevolmente, sulla strada degli
empi e l’ira di Dio è intervenuta a giudicare e punire. Non c’è che una via di
scampo: la riconciliazione con Dio attraverso una sincera conversione, perché
il Dio “giusto” è anche “misericordioso”. (cfr. Giobbe 22).
Giobbe apre un contenzioso con Dio. «Io grido a te,
ma tu non mi rispondi, insisto, ma tu non mi dai retta.» (Giobbe 30:20). Depresso,
avvilito, scoraggiato, arrabbiato… contende
con Dio, dopo averGli parlato, aver pregato, invocato, gridato. Per Giobbe ciò che manca è la credibilità di Dio come partner relazionale. Tuttavia, vuole
continuare a mantenere la relazione con Lui. Come Giacobbe, anche Giobbe lotta con Dio con
tutte le forze. Altro che paziente,
Giobbe… È impaziente, perseverante, irriducibile,
sfidante: Giobbe, l’uomo in rivolta, così titola il suo saggio Roland de
Pury. Nondimeno, non viene condannato da Dio: se la logica dei suoi amici e di
Eliu vorrebbe un Dio che, dopo l’arringa di Giobbe (avvocato di se stesso),
condannasse il ribelle, Dio invece parla al contestatore e mette a tacere i
Suoi “avvocati d’ufficio”. All’inizio sfugge a questo “corpo a corpo”; non per
viltà, ma perché Dio non potrà mai essere
afferrato: non possiamo racchiuderlo nei nostri schemi. Dio sfugge a ogni
presa, è sempre oltre e altro. Seduce – conduce a sé – e poi
scompare (come Gesù sulla strada di Emmaus); infine, Dio riappare (ma era stato
sempre presente: e parla.
Dio accetta la sfida, quasi blasfema, depone al “processo” e da accusato
ri-diventa giudice supremo: Tu chi sei?
Sei tu forse Dio? Sei tu il Creatore? Il deus absconditus esce finalmente allo scoperto. Alle domande,
sensate o insensate, di Giobbe, Dio risponde con delle contro-domande,
spiazzanti ma capaci di scuotere Giobbe dal suo torpore intellettuale e
spirituale: una vera e propria psicoterapia d’assalto, tale da “scioccarlo” e
“risvegliarlo”. Quella di Giobbe, passato lo shock – o proprio per effetto della
“scossa” –, è una nuova nascita.
Giobbe, anche sotto interrogatorio, rimane fedele alla Parola e
«riconosce, davanti alla sfilata dei segreti cosmici della requisitoria di Dio,
di non essere in grado di sondare che qualche particella microscopica, mentre
Dio sa percorrerli con la sua onniscienza ed onnipotenza.» (G. Ravasi). Partendo
dai lumi della ragione – la Scienza con i suoi segreti e le sue scoperte – l’uomo
farà l’esperienza di Dio solo superando la ragione stessa, con un lampo d’illuminazione. Ora vede: «Il mio orecchio
aveva sentito parlare di te, ma ora l’occhio mio ti ha visto.» (Giobbe 42:5). Giobbe
accetta che ci sia un altro piano: «I cieli sono i cieli del SIGNORE, ma la
terra l’ha data agli uomini.» (Salmo 115:16). Giobbe, arreso, sì, ma anche “guarito”. Giungiamo così allo shalom finale, il vertice
dell’itinerario di Giobbe; non la soluzione di una questione umana, ma “vedere
Dio coi propri occhi”: conoscerLo dal
vivo, non solo per sentito dire.
Questo è l’uomo-Giobbe e questa è la
storia di un uomo – anzi, il prototipo della storia di un uomo
qualsiasi, al di là del censo o della classe sociale – dal lieto inizio e
dal lieto fine, ma con un tragico interludio. Giobbe finalmente incontra Dio a tu per tu: non più un Dio che si conosce
per sentito dire, ma che si vede;
così come la fede non è un’ideologia che si apprende sui libri o di cui ci
s’investe per tradizione o nascita. Giobbe, ora davvero felice e “realizzato”, riprende
il cammino e s’inoltra nella Storia.
In sintesi, il libro di Giobbe testimonia della necessità di un Redentore. Questo redentore, che battezza, guarisce,
salva (shalom: salvezza, pace,
salute, benessere e ben-essere), è Cristo. È Lui il garante della bontà di Dio, il nostro avvocato in cielo. Ed è quello di cui tutta l’umanità ha un bisogno
assoluto sempre, e quanto mai ora, ai tempi del coronavirus…
Nicola PERCHIAZZI
(romanziere, saggista,
studioso di teologia e spiritualità)
N.B.
Articolo su VOCE PENTECOSTALE marzo 2020
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