KILLING ME SOFTLY
(seconda parte)
Dicembre avanza, il mondo arretra. Vade retro 2020…
Fine del 2020 (ormai prossima): cronaca di una morte annunciata. Ma risolleviamoci… Niente di meglio che un po’ di “scrittura”, soft e dura insieme, per il colto e l’inclita (ripeto quanto detto due giorni fa: riandate al post).
Ed ecco per voi un altro tralcio dal mio inedito “Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?”
Thor. Parole tonanti o sussurranti, fluenti a cascata (mai stagnanti), corpose ed eteriche, arcaiche ed estatiche (extase à deux), estetizzanti, escatologiche e frivole, nouveaux o déjà vu, sempre in bilico sul borderline tra greve e sublime. Mi denotavano, connotavano, erano insieme referend e symbol, signifié e signifiant, langue e parole, “suono su una faccia, e pensiero sull’altra”. E lasciavano il segno: “Guance arrossate, traccia inequivocabile di un contropelo troppo duro...” Speravo solo che incidessero nella realtà, fossero spade a doppio taglio, non solo spilli per inc… mosche (e per decenza non diciamo di più, direbbe il siculo Buttafuoco, dimentico del franco Céline).
La parola è un tremendo pericolo, soprattutto per chi l’adopera, ed è scritto che di ciascuna dovremo render conto.” Sì, ero un topo di biblioteca (ultima scoperta, Cristina Campo – nella mia anima, scampata agli spaventi del giorno, già da tempo albeggiavano i suoi silenzi remoti trafitti dai dardi verso il cielo); e ora, col mouse, anche scrittore (ancora in vitro, leggermente scheggiato). Echeggiante (all’inizio, boccheggiante. Nessuna Eco, solo un sottile suono di silenzio…). Un po’ randagio un po’ domestico (badante?). Eppure, voglio essere selvaggio: voglio scagliare come dardo la mia necessitante volontà e ferire l’orecchio di Dio! Voglio inferire, infierire…
E ‘l naufragar m’è dolce in questo mare… E dopo aver scampato tremendi pericoli (parole, parole, parole…), dopo qualche beccheggio ero finito nella rete. Senza rendermene conto. Passato, quanto ai libri (quando bucavo la rete e tornavo sulla ‘carta-ferma’ – che giravo freneticamente), dall’insostenibile leggerezza dell’essere all’alito pesante del drago che butta fuoco (quello del contropelo).
L’ultima del diavolo? No, tutta colpa di Lorenzo, il mio biblio-avatar (lo junkie, il book-addicted, bookworm e movieworm…). Uno che, anche se solo ‘di carta’ o ‘sulla carta’ conoscevo bene, biblicamente (un tocco di gayezza? Forse l’onda lunga di Stefan George e gay-bardi dis-correndo – quanto alla literacy non mi faccio mai mancare nulla).
“Si tratta di arrivare all’ignoto mediante la sregolatezza di tutti i sensi.” Amo gli eccessi (a parole, quando mi spingo giù sino ai ‘poeti maledetti’) ed eccedo negli amori (anche qui, verbis non factis). “Voglio essere poeta, e lavoro a rendermi Veggente.” Ho sposato la prosa, ma la tradisco con la poesia (sono single). E ci sono altre Muse che spingono per entrare: fuori piove…
Gocce di pioggia a Jericoacoara: questo il titolo del romanzo. Anche lui multilivello, olografico, animico. “Romanzo-rapsodia, fervido di vita e voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore … vorticoso nel suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e trepidazione, ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura vivace, geniale, estetizzante, ma tutt'altro che décadent, capace di affratellare Policleto e i Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie, dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da giocoliere della parola e da funambolo della nuance.” Così la “scrittrice arya”, quella che maneggia la penna come un cultro (o una katana).
Lost (era la mia ultima spiaggia). Fiera delle vanità o vanto della fierezza? Ricerca di senso o senso della ricerca? Spazio in cerca di forma, simbolo dietro il segno? Ai posteri l’ardua sentenza (nel frattempo, ero in languida attesa del colpo di derrière – la fortuna aiuta gli audaci; ma anche, più titanicamente, i violenti s’impadroniscono dell’Olimpo…). Ne ero comunque fiero. Vanità delle vanità. E poi, avevo voglia d’interferire…
Una ferita nell’epidermide del mondo; poi… più dentro, sempre più giù, fino al nocciolo. Volevo penetrare. E non solo nel mondo. In corpore vivi. Mi sentivo investito da una missione (e sotto il vestito? Niente. Volevo correre nudo alla meta). Sì, era giunto il momento. “Sono un uomo d’oggi, Sono solo. Ma ho ancora gli dèi, al massimo Dio” (e forse anche qualche idea…). Mon Drieu! (La Rochelle – non sono solo rocchettaro). Il tempo era ormai maturo (il tempo, questa tigre che divora…): il chronos aveva scandito il kairòs (e questo aveva battuto sul tempo l’aion). Non avevo mangiato la mela acerba e non mi sfagiolava certo la frutta andata. Aspetto la frutta di stagione… Time passes by.
I tempi… Mesi, settimane, giorni. “Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio.” Dal fiat lux al punto omega, l’alfa ne aveva fatta di strada per arrivare al traguardo (l’epilogo del romanzo). Se Jack Kerouac ci aveva messo solo tre settimane (da raccontare) per buttar giù le trecento pagine rollanti sui quaranta metri di carta da telescrivente, il mio viaggio era stato (un) mosaico. “Ho ripreso la penna ed ho cercato di rimettermi al lavoro; ne avevo fin sopra i capelli di tutte queste riflessioni sul passato, sul presente, sul mondo. Non domandavo che una cosa: che mi si lasciasse finire in pace il mio libro.” Sartre, che nausea… Ma alla fine la carovana aveva raggiunto l’oasi (e vicino c’è il mar morto – a quando il bosco?).
The beat goes on. “Devo andare e non fermarmi finché non sono arrivato. Andare dove? Non lo so, ma devo andare...“ Di eone in eone, il cammello si era fatto leone… Così canticchiava il mio fanciullino subliminale (“È dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi … ma lagrime ancora e tripudi suoi”). E mai invecchiava il pargolo, si rigenerava di aion in aion (negli abissi della mia interiorità il tempo, nelle sue varie coniugazioni, e congiunzioni, scorreva molto più velocemente che all’esterno – il mondo immaginale ha i suoi ritmi, le sue pause, le sue frenesie. E poi, cominciava a intravedersi l’eterno ritorno: Getta il tuo pane sulle acque, perché dopo molto tempo lo ritroverai).
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