sabato 19 dicembre 2020

L’OCCHIO INDISCRETO (parte prima)

L’OCCHIO INDISCRETO

(parte prima)

 

Come ben sapete, tra i vari argomenti che affronto, privilegiati sono l’architettura, la psicologia e la teologia. 

Perché no la filosofia e la sociologia…? E infatti, non le trascuro affatto: rientrano anch’esse in questa famiglia “allargata” – a dire il vero, l’architettura potrebbe sembrare un’intrusa (diciamo un’adozione a distanza…), ma, nel ’68 e post dei miei studi universitari, l’architettura si nutriva, lucullianamente, di filosofia e psicologia (Heidegger in primis, ma c’era chi, come F.L. Wright, flirtava con Gurdjieff…).

Conclusione, oggi (s)tralci di sociologia peraltro quanto mai attuali (senza però scadere nel complottismo becero e ignorante oggi dilagante, soprattutto sui social).

P.S. Si tratta delal rivisitazione di un mio intervento di un paio di decenni fa.

 

Uno dei caratteri salienti delle società moderne è la strutturazione di nuove forme di potere e di controllo sociale fondate su base razionale…

Al di là della razionalità o irrazionalità di tutti i ‘poteri’ che ci attanagliano (e della loro autorità dovuta ad autorevolezza exousia – o a semplice forza – dynamis), fatto è che essi sempre più sostituiscono quello che era il classico potere di controllo: la religione (che, in ogni caso, sopravvive, anche quando, apparentemente, dovrebbe rendere liberi). 

Ma di religione e, meglio (alla Karl Barth), di fede parleremo in seguito; qui torniamo al controllo sociale d’impronta laica: un autore che su di esso si è soffermato con ‘occhio attento’ è certamente Foucault, il geniale profeta prefiguratore di fenomeni a noi contemporanei.

L’opera in questione è “Sorvegliare e punire”, nella quale Foucalt studia il ‘Panopticon’, struttura carceraria della seconda metà del XVIII secolo, ideata, dal punto di vista architettonico, dall’inglese Jeremy Bentham (che era, peraltro, filosofo, giurista ed economista). 

Il Panopticon era di struttura circolare, ad anello, con l’alta torre di sorveglianza. nell’atrio centrale. Ma la sua vera particolarità erano le celle: prive di sbarre e catene, si affacciavano proprio verso l’interno dell’atrio, convergenti, anche otticamente, verso la torre centrale, dove risiedeva il guardiano. Non dobbiamo però pensare a celle buie, anguste, con i carcerati  rinchiusi e incatenati, bensì a ‘moduli’ totalmente illuminati, privi di qualsiasi elemento di costrizione come sbarre o catene (non dimentichiamoci delle simpatie illuministe del Bentham).

A questo punto può sorgere naturale la domanda, se questo sistema carcerario fosse sicuro ed efficace. La risposta è affermativa: il carcerato, in realtà, non ha catene fisiche, bensì psicologiche: essendo totalmente visibile dal guardiano della torre centrale – e per di contro non potendolo vedere – è tenuto lui stesso, in maniera autonoma, ad autodisciplinarsi, nella consapevolezza che, se fa qualcosa di illecito, potrebbe essere visto dal guardiano, in qualsiasi momento. Il sistema ‘panoptico’ (panottico: pan – tutto; òptikos – visivo) viene utilizzato, non solo per i malviventi, ma anche per affetti da turbe psichiche, i malati in gravi condizioni fisiche e, addirittura, gli scolari indisciplinati (il maestro unico?). 

Il Panopticon ha grande effetto nell’ambito dei rapporti sociali: Foucault, nella sua opera, mette in risalto i contrasti tra i provvedimenti utilizzati in Europa nel XVII secolo – durante l’imperversare della peste – assolutamente rigidi ed autoritari, discriminanti verso gli appestati e i lebbrosi (un revival della più bieca ottica medioevale) – e il panoptismo, fenomeno decisamente nuovo, per la prima volta in Inghilterra nella seconda metà del XVIII secolo. E il potere dell’effetto panoptico era talmente efficace da definire queste nuove carceri non più ‘case di sicurezza’ ma ‘case di certezza’.

La società definita ‘moderna’ ha intrinseca l’idea di una forte razionalità: si comincia a percepire in modo ben più consapevole come l’uomo sia, sì l’artefice del proprio destino, ma in realtà anche assoggettato a schemi mentali che lo avviano (inconsapevolmente) a un autocondizionamento. L’età moderna è caratterizzata dal mercato e dall’idea di stato: l’uomo, e solo l’uomo, può giostrare in questi ambiti (pur guidato, talvolta, da fili invisibili. E pensare che pensa di essere libero, solo perché ha reciso i fili che lo ‘legavano’ al cielo!). 

Anche il protagonista del Panopticon è l’uomo, solo con la sua psiche e la sua razionalità. L’abile regia fa sì che i sentimenti siano pressoché comuni a tutti gli ‘attori’ dell’opera panoptica: il timore di essere scoperti, la consapevolezza di essere sempre e in ogni circostanza sotto l’occhio del sorvegliante, la coscienza di far parte di un meccanismo apparentemente più ‘sciolto’ rispetto ai classici sistemi di controllo, ma che in realtà agisce sugli ‘ingranaggi’ più intimi della nostra persona…

Il guardiano può anche non esserci, questo non importa, quel che vale è – effetto Pavlov – che chi fa parte del Panopticon abbia comunque l’intimo timore di essere scoperto.

Proiettiamoci ora nella società definita ‘post-moderna’ o ‘contemporanea’ (quella della fine dei grandi racconti – Lyotard), segnata dall’indebolimento delle pretese della ragione: età di plurivocità e polimorfia, dell’emergere di una pluralità di modelli e paradigmi di razionalità non omogenei (non ultimo il New Age, ora ‘discioltosi’ anch’esso nella ‘società liquida’), vincolati solo dalla specificità dei loro rispettivi campi d’applicazione. 

Età di un pensiero senza fondamenti, ‘liquido’ (non per questo sempre negativo: galleggiando sull’acqua si possono toccare nuove sponde…), epoca dell’epoché (sospensione del giudizio), della decostruzione (anche in architettura: paradigmatico il Guggenheim Museum di Frank Gerhy, a Bilbao), della critica alla ragione strumentale che revoca il senso della storia e ne riconosce il carattere enigmatico. 

Soprattutto, forse, l’età in cui scienza e tecnica appaiono rischiose... Quest’ultimo punto sarà d’importanza rilevante per il proseguo di questo trattato.

Arrivati a questo punto, tra modernità (unità, consenso, universalismo, ragione) e postmodernità (differenza e alterità, dissenso e pluralità), appare lecito chiedersi se, ancor oggi, ci possa essere qualche forma di panoptismo nella nostra società. Gli uomini del terzo millennio possono considerarsi totalmente liberi da ogni tipo d’influenza proveniente da chissà quale ‘entità’? Liberi di agire, pensare, di essere gli unici protagonisti della propria vita? 

Soprattutto in seguito alla diffusione dei mass-media a livello mondiale (il villaggio globale – Mc Luhan ci sembra ormai così lontano…), dalla radio sino alla televisione, e infine Internet, l’opinione pubblica mondiale si è scissa in due grandi tronconi, com’è ovvio che sia di fronte a fenomeni di tal portata. Alcuni studiosi – i cosiddetti ‘massmediologi’ – nonché molti sociologi e addetti ai lavori ritengono che lo sviluppo del fenomeno ‘televisione’ prima, e Internet poi, siano segno di grande progresso da parte dell’umanità, se non proprio un chiaro segnale della libertà prometeica ormai ottenuta dall’uomo del terzo millennio.

Gianni Vattimo la pensava così già una ventina di anni fa ”Internet è una rete senza centro, ma ci dà un premio: la libertà” (Telèma 8, primavera 1997). Così pure Paolo Guzzanti: “Archivio, piazza, mercato ma anche una miniera di idee. Qualcuno si chiede se la libertà dell’uomo potrà sopravvivere in un mondo dominato dalle macchine. Gli si può rispondere che la vera libertà comincia adesso: è quella offerta dalla possibilità di utilizzare i vari strumenti per comunicare, sperimentare, produrre. Non avevamo mai avuto tante chanches” (Telèma 8, primavera 1997).

E così potrebbe sembrare, agli occhi dei più, che la rete ma anche la televisione in seconda battuta sia un dispensatore di libertà e opportunità sotto tutti i profili immaginabili, dal lavoro all’intrattenimento e alla ricerca. Se è riconosciuto che la televisione, più di ogni altro mass-media, possa condizionare i costumi di coloro che sono al di qua del tubo catodico, forse è solo Internet a far temere un vero e proprio timore di plagio e di controllo totale. Internet – capro espiatorio? – vede riversare su di sé le paure (consce e inconsce) che la società contemporanea comincia a manifestare nei confronti della scienza e della tecnologia, con esiti spesso devastanti nelle menti più sempliciotte. 

Viviamo sempre più immersi nel cybermondo, consapevoli che il futuro sarà esclusivamente tecnologico, consci di essere saliti su di un mezzo che non avrà mai un capolinea. Fermate il mondo, voglio scendere!’ Prima un vagito, ora un grido: il timore di un inganno subliminale comincia a svegliare le coscienze (ma spesso i cosiddetti risvegliati sono i più addoementati...).

Franco Ferrarotti ammoniva (rimango sempre nel secolo scorso): Attenti ai signori dei media, reinventano la realtà e possono colonizzarci l’anima. Siamo di fronte a un mutamento epocale: il passaggio dai vecchi strumenti di comunicazione di massa ai nuovi media digitali e interattivi. Ormai la realtà non viene semplicemente imitata, viene rielaborata, ricreata virtualmente, arricchita di alternative possibili, superata. Il cyberspazio sarà il regno della cooperazione anarchica tra libere coscienze individuali? Forse sì, ma c’è un pericolo: la colonizzazione dell’anima”. (Telèma 7, inverno ‘96/97).  

 



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