KILLING ME SOFTLY
(prima parte)
Dicembre avanza, il mondo arretra. Vade retro 2020…
Fine del 2020 (ormai prossima): cronaca di una morte annunciata. Ma risolleviamoci… Niente di meglio che un po’ di “scrittura”, soft e dura insieme, per il colto e l’inclita. Ed ecco per voi un tralcio dal mio inedito “Nietzsche: sneakers o tacchi a spillo?”
O viva morte o dilettoso male. Se non fosse stato per il libro, il computer poteva pure andarsene in cancrena. Kissenefrega. Datemi i libri e vi solleverò il mondo, ma il computer… Polvere e pula al vento (questo il mio primo soft impact, anni fa, e neanche tanti. Sono tardo, e lento, quanto a tecnologia). Eppure, mio malgrado, me lo devo sorbire. Kiss kiss. E si sa, la mano, il braccio… e poi, chiodo scaccia chiodo.
Libri ‘inchiodati’? Jamais! Books, booklets, penguin classics, livres de poche, pocket, tascabili, purché libri… (anche e-books. Ammazza… – amazon – che bibliofilo!). Li compulsava, slinguava, odorava, sniffava e poi vi ci si tuffava. Anche a occhi chiusi. Lorenzo era uno junkie, un drogato (di fogli stampati, non di cartine), un book-addicted: aveva più d’una scimmia sulla spalla (e gli facevano pure le linguacce).
A proposito, pour parler: Lorenzo, il bookworm (ma anche movieworm), fluiva in english, galleggiava in tedesco – aveva fatto uno stage nazi-runico –, dava delle belle unghiate french. E poi ogni tanto stillava, specie quando scriveva, gocce d’umor pagano dall’Olimpo e dai Sette Colli; un po’ di ‘vento divino’ dal Sinai per la par condicio e, sursum corda, sciacqui nel Gange.
Croce e delizia. Le parole schiodate dal mio libro m’inchiodano a Lorenzo (il mio alter-ego di carta, un ‘ribelle’ sempre meno virtuale). Lui il crociato, io la pietra filosofale; loro, gli ipsissima verba, il martello: il triangolo perfetto per incidere nella realtà (e non solo per ballare sul mondo).
Diapason, flauto, arpa, siringa… Ago che inietta vita: senza strumenti musica nuda la parola produce.
Fatti e misfatti. Verba volant (et volunt). Sì, il linguaggio che si fa parola, la parola che si fa atto: “nessuna cosa è dove la parola manca” – questo uno dei motti preferiti di Galatea (soffiato a Heidegger, ma da lui stillato, con ‘cura’, da ‘Das Wort’, poesia di Stefan George – lingua vergine, ‘virgo mater’ del sacro cerchio). La parola che nomina le cose, le contrassegna, le crea. “Basta la parola…”
Parola coessenziale all’azione. Parola in movimento, in divenire, in estasi. Versi intessuti, carmi circolari, parola in cammino.
Parola ‘attiva’. Più che ‘parola’, ‘verbo’, azione che si attende una re-azione. Action now.
Parola dinamica, scoppiettante. Parola che grida quando più tace. Parola che canta, sussurra, piange. Nella parola balugina la spiritualità dell’anima. E questa si fa corpo. Per accoppiarsi e poi scoppiare. È la parola che dà sostanza, essere, alla ‘res’. Logos lex: la parola è legge. Logos Rex: la parola è re, anzi regina, e di questo logos Galatea era diventata padrona.
Suona la parola la malvestita realtà… Parolibere ancheggianti, ossimori frenati o rutilanti, specchi autoriflettentesi, un po’ narcisi un po’ Eco. Un romanzo-carillon il mio – i fatti come lame rotanti, i pensieri come trottole vorticose, e in cima a ciascuna di esse le parole come dervisci tournants sulla capocchia di uno spillo.
“Romanzo-rapsodia, fervido di vita e voci, di ritmi e canti e risa, dal profumo di ingenue aurore … vorticoso nel suo ritmo da derviscio tournant, vibrante di tensione e trepidazione, ossimorico nei suoi dolci contrasti, dalla scrittura vivace, geniale, estetizzante, ma tutt'altro che décadent, capace di affratellare Policleto e i Beatles. Un ‘panta rei’ entusiastico ed entusiasmante, un fluire di sapienze ed eresie, dall'oscillare inarrestabile, ebbro … una scrittura da giocoliere della parola e da funambolo della nuance.” (a parere, e sentimento, della scrittrice e filologa “ariana”).
Io (il nome? Non serve), servo della parola. E Lorenzo, mio schiavo (e poi Galatea, la matrona – a seguire famuli e ancillae in ordine sparso). Romanzo à la carte: antipasto, primo e secondo della mia vita (ero alla frutta).
Lorenzo audioslave. Gli piaceva la musica gospel, battere i chiodi col martello e parlare in lingue. Non era la prima volta che sconfinava in lande straniere…
Verba volant (come stringhe cosmiche), scripta manent (come quark plutonici). Macchie uraniche d’inchiostro sotto vetro (il display del computer), esprit irenico, platonico, ironico, forse iranico (Zarathustra?). Particelle elementari, staccatesi da un magma incandescente e filanti senza direzione e senso. Pensieri e parole coagulatesi in stringhe cosmiche (anche comiche), corde vibranti del mio pluriverso (canone inverso): stringhe aperte sull’universo per connettere le estremità di pensieri a folle, stringhe chiuse sull’introverso per accalappiare idee occhieggianti dall’ultramondo (il mio castello interiore, l’empireo, la Sophia divina, la Scienza gaia?). Lorenzo, the fool on the hill.
Thriller… Con quanti denti le parole mi mordevano! Ma ciò che più incidevano nel romanzo erano i silenzi: “sguardi senza patria quaggiù, silenzi più remoti dell’uranico vento…” Nondimeno, erano le parole a de-cidere, ad agire, a in-cidere sui miei sentimenti. Sono loro – verba, logoi, loghia, rhemata – a configurare e a dare espressione alla mia necessità interiore (in attesa di trasfigurarla, di trovare la mia ‘dimensione’, la mia necessità più alta – insomma, diventare ciò che sono).
Vir bonus dicendi peritus? Più che altro, sono un malato – quasi allo stadio terminale – di parole, specie di quelle fatte di silenzio (quanto al bonus ne avrei fatto volentieri a meno. Non voglio sconti, figuriamoci regali…). Parole silenti. (“Chi parla non conosce. Chi conosce non parla.” È il Tao Te Ching a dirlo). Dal sottile suono di silenzio al rombo del tuono (il ruggito della scrittura – e poi, come graffia…): come Ildegarda la mistica, sapevo scrutare le viscere della memoria e il ventre dell’universo. E col forcipe dello spirito avevo reciso le sbarre dell’anima. Il terribile era avvenuto.
Nessun commento:
Posta un commento