venerdì 4 novembre 2016

IL CAOS HA PARTORITO LA SUPERSTAR DANZANTE Fermate il mondo voglio scendere




IL CAOS HA PARTORITO LA SUPERSTAR DANZANTE
Fermate il mondo, voglio scendere...

La terra continua a tremare, qualcuno trama nell’ombra e qualcun altro fa squilli di tromba...
Ci sarebbe fin troppo da dire sull’attuale situazione, nazionale e mondiale, fra Trump, Hillary, Matteo, May (un pot-pourri alla Harry Potter), ma non voglio unirmi al coro: sarei una voce stonata. Piuttosto, in attesa di iniziare un percorso “pratico”, con una serie di argomentazioni-lezioni sulla “crescita personale” ancorata alla realtà contemporanea (quella dell’”uomo cablato”, in rete), ripesco un articolo scritto per un blog di architettura (daltronde, questo blog nasce principalmente come blog darchitettura), in quanto lo ritengo ancora attuale: le considerazioni escono dal territorio dellarchitettura e si inseriscono nei meandri della contemporaneità, di questo tempo "liquido" ma in via di condensazione.
In ogni caso, per chi mi segue, resto sempre “sul pezzo”.

IL CAOS HA PARTORITO LA SUPERSTAR DANZANTE
di Nicola Perchiazzi
pubblicato il 20/01/2009
Il nostro tempo (post-liquido? sublimato?) cerca una nuova solidità ‘sublime’ in costruzioni sempre più decostruite, in un funambolico vorticoso tentativo di ri-creare un nuovo ordine (s)oggettivo.
”La verità non è venuta nel mondo nuda, ma è venuta in simboli ed immagini: il mondo non la riceverà in altra maniera. C’è una rigenerazione e un’immagine di rigenerazione. Ed è veramente necessario che si sia rigenerati attraverso l’immagine…” (dal Vangelo di Filippo)
“Gesù disse loro: Quando farete di due uno e quando farete che l’interiore sia come l’esteriore e l’esteriore come l’interiore, e ciò che sta sopra come ciò che sta sotto, e quando farete che maschio e femmina siano una sola cosa, così che il maschio non sarà maschio e la femmina non sarà femmina, e farete che occhi siano al posto di un occhio, e una mano al posto di una mano, e un piede al posto di un piede, e un’immagine al posto di un’immagine, allora entrerete nel Regno.” (dal Vangelo di Tommaso).

Verità, simboli, immagini… L’architettura è la ‘materializzazione’ (tekton) del ‘principio’ (arké), è il ‘rivestimento’ dell’’idea’ (la verità). E come si sa, l’abito non serve solo a proteggere dal freddo, ma è anche ‘esibizione’ di sé… È quindi naturale (è nella natura delle cose) che, a fronte di tanta architettura (o solo ‘edilizia’) ‘organica’ o comunque ‘etero-referenziale, ci siano “architetture auto-referenziali, egomaniache, de-contestualizzate, sempre diverse le une dalle altre, ma tutte eguali nell’impossibilità di poter trovare un criterio di giudizio se non di tipo esclusivamente individuale” (Pietro Pagliardini in “LPP:Star-system da bocciare? Si, forse, anzi no”, su De Architectura).
Architettura ‘bella’, architettura ‘brutta’? È nella natura delle cose… Il problema è che, mentre un vestito lo si può togliere o eliminare tout-court, l’architettura ha anche, e soprattutto, un corpo e l’eliminazione del suo ‘vestito’ quasi sempre non risolve il problema: l’impatto visivo e la risonanza di un ‘fatto’ di architettura ‘disturbante’ può avere effetti, non solo sul singolo passante o utente, ma anche, e soprattutto, sull’immagine e sull’idea di città. 
Ed ecco che il genius loci, sempre in allerta, può reagire rigettandola, e questo a livello subliminale può incidere negativamente in chi frequenta certi luoghi, sommandosi così al ‘disturbo’ percettivo e ‘somatizzandolo’. L’unico fatto positivo, sempre alla Kevin Lynch, è che un’architettura ‘esibizionista’ può fungere da riferimento e orientamento, essendo un oggetto dello spazio velocemente identificabile anche a distanza.
Fatto è che l’architettura è soggetta anch’essa all’unità triadica, e per questo conflittuale, tra Io, Super-Io ed Es, ossia tra continuità (Super-Io) e discontinuità (Es) nel tempo e nello spazio (integrazione o dis-integrazione nel tessuto urbano), con l’Io che dovrebbe fungere da ars combinatoria, nell'arduo tentativo di contemperare la ‘fuga da’ (fuga dalla ‘storia’, dalla ‘tradizione’, dall’’usuale’, ecc.) con l’’accanto a’ (contestualizzazione, integrazione). [è questo il problema delle zone terremotate: costruzione nuova o mimesi dell
antico?].
Diceva Pierluigi Nicolin (in Lotus 1984/2): “L’architettura contemporanea va alla ricerca della figurazione in aperta polemica con l’astrattismo degli anni passati; ma questo avviene in quella circostanza che Lyotard ha chiamato la fine delle grandi narrazioni. Per l’architettura si verifica un’altra più specifica circostanza, che possiamo chiamare la fine della progettazione per modelli (nozione spesso confusa con quella della tipologia). Una fine confermata anche dai progetti di architetti che per essere legati a questo concetto sono costretti dai fatti a realizzare i loro edifici come unità infrante.”

Firmitas, utilitas, venustas, propinquitas… Fine dei ‘modelli’, destandardizzazione, unità infrante. Insomma, contestualizzare l'architettura (local) o decontestualizzarla in nome della modernità (global)? E che dire di unarchitettura glocal, contemporanea ma inserita nel contesto?
La casa romana fu l’esito di complesse sedimentazioni e di ri-definizione o ri-orientamento del significato stesso di ‘abitazione’. Ulteriori sedimentazioni e articolazioni hanno attraversato tutta l’architettura fino a oggi, in un connubio, non sempre felice ma comunque vitale, tra mythos e logos (il mito tace, il logos parla). Parole e silenzi, idee senza parole… 
Il mito è il ‘vivaio’ delle idee d’architettura, in quanto racconta sempre la stessa cosa – essendo la matrice di ogni forma culturale e simbolica, con forte valenza estetica – ma in modo sempre diverso. 
Il logos, logos endiathetos – discorso interiore – e logos prophorikos (parola emessa, udibile), è il tentativo dell’idea di farsi ‘fatto’, ‘evento’ ‘avvenimento’. 
Il mito è il ‘silenzio’ dell’architetto che, nel farsi parola, provoca la ‘scintilla’ (il ‘fiat lux’/Big Bang) che muta il Caos in Cosmos (il caos – nel ‘cuore’ dell’architetto, e non solo – partorisce la stella danzante). Ma sempre più spesso si sentono balbettii, o urla…

Cade il ‘grande stile’, o lo stile tout-court basato sulla concinnitas (armonia, simmetria, equilibrio, eleganza, bellezza, proporzione). E si batte la via della ‘dissoluzione della totalità’ e della sua ricostruzione ‘soggettiva’, caotica, disorganica (pur con la pretesa di puntare a un presunto organicismo, ossimoricamente disorganico, della natura): ciò può partorire il ‘monstrum’, sia nel senso, latino, di prodigio – i non molti capolavori in circolazione – o, forse più spesso, di mostro vero e proprio, nel senso comune del termine.
Ma perché tanti monstra? Dimostrazione di bravura o desiderio di migliorare il mondo? Esibizionismo dal basso o lo Zarathustra che scende dal mondo a portare i suoi doni?  
Più che altro, il desiderio dell’architetto contemporaneo di abbracciare anche nel più breve brano la totalità del mondo. 
Se la sintesi medioevale lasciava spazio alla differenziazione (il tutto nel frammento) e la modernità assumeva la totalità indifferenziata, riflessa nel progressivo depauperamento e sradicamento dell'individuo (la sua dis-animazione), mentre il post-modern tutto dissolveva (e continua a dissolvere), in una tiepida liquidità scongelante, il nostro tempo (post-liquido? sublimato?) cerca una nuova solidità ‘sublime’ in costruzioni sempre più decostruite, in un funambolico vorticoso tentativo di ri-creare un nuovo ordine (s)oggettivo, frantumando così l’idea progettuale in un fantomatico (fantasmatico, talvolta fantastico) flusso di segmenti di realtà. 
In una società (post)liquida come la nostra l’architettura rischia, dunque, di perdere la sua ‘solidità’, senza per questo ‘sublimarsi’. Per dirla alla Spengler: ”idee senza parole è l’unica cosa che garantisce la solidità dell’avvenire”. 
Educare l’uomo è impedirgli la “libera espressione della sua personalità” reagisce’ Nicolás Gómez Dávila, dall’alto della sua ‘turris eburnea’. Nondimeno, ‘incatenando’ l’architetto, ‘educandolo’, si avranno città forse vivibili, ma senza respiro ‘sacro’. 
E io, malgré tout, respiro male in un mondo non attraversato da ombre sacre…




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