lunedì 6 luglio 2020

ARCHIRAMA


                                                                           ARCHIRAMA 

Ricordi d’antan. Rimembranze, tra cuore, mente e membra.
A fine ’88 partecipai al concorso di architettura “La casa più bella del mondo”.
Il 25 gennaio dell’anno seguente il mio progetto fu esposto in mostra a Milano, insieme agli altri (col numero d’ordine – non di classifica – 302). I partecipanti erano 605, tra cui archistar del tempo, e la giuria era composta, tra gli altri, da Tadao Ando, Gianni Boeri, Gillo Dorfles, Paolo Portoghesi, Marco Zanuso (e ho detto tutto…).
Ecco qui, dal catalogo, un abstract del mio progetto (l’immagine in alto, mai postata finora) dimpronta postmodern-manierista e la mia onirica presentazione (l’ho già postata altre volte, ma vale sempre la pena rileggerla).
P.S. Nel '91 partecipai al Premio Internazionale di Architettura Andrea Palladiocon unopera appena realizzata (un edificio abitativo a Pulsano, prov. di Taranto), dimpronta brutalista-manierista. Anche qui ero in compagnia di archistar, tipo Odile Decq, David Chipperfield...

LA CASA PIÙ BELLA DEL MONDO

Era l’alba, il momento più degno per l’incontro cui tanto aveva anelato.
Si avvicinò al locus: il genio aveva ghestalticamente ricomposto le mille tessere in quarant’anni gelosamente serbate.
I have a dream si trasfigurò: la sua domus padana era lì, del sito proserpina, eppur ecumenica.
Nell’aura dai colori non ancora accesi, il portico audace tentò l’approccio, baroccamente giocoso, novecentescamente solenne.
Incuriosito, come bambino quarant’anni addietro, scartò la pur breve scalinata, infilò la rampa di sinistra, sospinse l’uscio ed entrò: una luce soffice lo accolse mentre s’incamminava incerto verso qualcosa che gli appariva un curioso dialogare tra reale e virtuale.
Scartò la scala di sinistra e acquisì la tattile consistenza cromatica che l’imago autre offriva di sé sulla flessuosa parete di destra: eterna diatriba tra essere e non essere, o forse qualcosa di più semplice? Scelse la prima ipotesi e, baldanzosamente attratto da sons et lumières, s’affacciò nella cavea ellittica.
Improvviso s’elevò un urrà di benvenuto: elfi e umani lo avevano per quarant’anni atteso e ora pubblicamente lo ringraziavano.
Ripresosi dallo stupore, gli parve persino di riconoscere figure settecentesche, perfettamente a proprio agio, così come cantava quel loro dialetto padano, così antico, eppur così vicino al suo.
Improvvisamente, vicino al camino, tra le griffe spuntò il figlio che se n’era andato appena grande, forse rientrato nei ranghi dopo anni di romitaggio esistenziale.
Lasciò le sequenze che l’ultimo videoclip affastellava sulla parete e, sentendo il desiderio di allontanarsi un po’ da quel clamore, volle ritirarsi nella stanza appena discosta dall’ingresso.
La porta era socchiusa; la sospinse, e si meravigliò assai vedendo lei, che l’aveva abbandonato, e i suoi vecchi, in un unico abbraccio.
Salutò con familiarità, quasi non avesse subito il distacco; prese lei per la mano e salì le scale, ma tale era lo stordimento, più di quanto volesse far credere, che salì per la rampa trompe l’oeil, accompagnato da chissà quale genio.
Superato l’ultimo gradino, si affacciò dall’alto sulla cavea ancor echeggiante e la immaginò vuota: in essa avrebbe potuto sistemare per sé, per la moglie e per il figlio, l’ufficio dell’operatore immobile, eppur collegato col villaggio ecumenico.
Per la sua intimità, e per i messaggi col villaggio cosmico, pensò invece a una sala al piano superiore, dove, nelle notti stellate, la cupola, una volta aperta dalla magia dell’elettronica, gli avrebbe dischiuso tutti i luoghi delle sue eterotopie.
S’immerse in queste digressioni, la mano di lei ancora stretta, la cupola ancora dischiusa sullo spazio irreale che virtualmente si apre oltre la coscienza, quando un improvviso temporale gl’inseminò il capo: pensò allora che forse una più stabile copertura, magari colorata d’azzurro, avrebbe garantito la pace domestica.


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