READING FROM NEW YORK
Forever young.
Anno zero. Ground Zero. Absolute zero, Lorenzo-Zarathustra,
l’eretico. Il suo progetto era frutto delle sue visioni, celesti ma poggiate a
terra (sia pur fluttuanti). Più della ‘nuvola’ di Fuksas. Da bradisismo. Lui,
che era un bradipo, era lì per dare un’altra toccata di ‘rem’ al sogno
americano. A occhi aperti. Lontano anni luce dalle nuvole dell’ideologia
marxista (attraverso la cui nebbia pure era riuscito a vedere qualcosa) e dallo
smog (e smoking) di borghesismi e fondamentalismi vari. Mocking, beffeggiando, si avviava verso la meta (aveva fatto ben
oltre della metà del ‘percorso’; ma ora era tutto più facile: pedalava in tandem – questa l’aveva
preso in prestito da un disco ‘cristiano’ a lui caro). Nonostante il
sopravvenuto, insperato e imprevisto, impegno professionale, lo spirito ludico
era sempre vivo in lui: non era andato sotto spirito…
Sempre
giovane, ma non più moccioso: era sempre quei tre metri sopra il cielo. In
pieno alcolismo vitalistico, ma sempre sobrio quanto agli eccessi, anche di
lavoro. Anche lui, come Arianna, non era un workaholic,
un work-addicted, un drogato del
lavoro; né, tanto meno, un tossico delle convenzioni sociali. Caracollante tra
‘polo arcaico’ – l’arché,
l’essenza, la sostanza –, immutabile, e ‘polo futurista’, innovativo
nella forma. Dar forma a cosa? A Ground
Zero. Per cosa? Un progetto di getto, informale, alla Charlie Parker. “Cos’è
la città, se non un coacervo di esperienze, un cumulo di mattoni di vita.
Sedimenti di passato, bollicine di presente, fumi di futuro.”
Mela verde, New York,
acerba, matura, marcia. Cucina dell’inferno, salotto del paradiso. Purgatorio.
Lembi di limbo. Città lombrosiana, più che ambrosiana, psicanalizzava Lorenzo
(che un po’ guru lo era) nelle sue esordienti promenade all’ombra dei
grattacieli. Città fallica, ma non fallita. Folle. Frullata. La folla che
viaggia a folle. Frange di tempo. Città senza frangia.
“New
York é una città brutta e sporca. Il suo clima é indecente. Le sue strategie
politiche terrorizzerebbero qualsiasi bambino. Il suo traffico é una follia. La
sua competitività é micidiale. Ma su una questione non vi sono dubbi: dopo
essere vissuti a New York, dopo aver fatto della città la vostra casa, nessun altro luogo potrà più reggere il
confronto.”
Città di cui fare
esperienza. Con innocenza. Da avventura culturale. E anche trend-setter. E Lorenzo aveva tentato il grande salto. Un progetto
‘tosto’ il suo, tostato al punto giusto. Ma su cui non avrebbe puntato un cent.
Rien ne va plus. E
la pallina si era fermato sul numero giusto. Zero (a proposito, Lorenzo era un fan dei 50
Cent. Forte per un cinquantenne…).
“Le città sono stati
d’animo, stati emotivi, umori.” Con o senza John
Steinbeck e Saul Bellow. Città da abbandonare, ma per andare dove? “When you leave New York you ain’t going nowhere.” Eppure, “Living in New York is never easy” (e nemmeno leaving). Vivi e lascia vivere. Da svegli, dormendo o
in fase rem, New York è assolutamente
da vivere, fosse anche “vedi New York e
poi muori...” E Lorenzo, che pure mai come in quello scorcio esistenziale
(uno squarcio di vita autentica)
voleva vivere, si fece ‘prendere’ dal gorgo macro-metropolitano (e dal suo
gergo). Dal vortice tritarifiuti, dalla fonderia di corpi e anime, dal
laboratorio alchemico.
Reading from New York. Città biblica. Come la Bibbia: puoi
rileggerla infinite volte e ogni volta scopri un senso nuovo. Settanta
sensi. Città fucina, laboratorio di un futuro charming. E il
presente? Il sole che sbanda sui muri di vetro, le pareti di mattoni che si
fanno rubizze… New York, città di rubino, cristallo e porcellana (cinese).
Paradiso, inferno, purgatorio… (il limbo era passato di moda). Chiasso
generale tra i silenzi individuali. La musica? From the beginning, di
Emerson, Lake e Palmer. Così sentiva (come sintesi) il ‘suono’ della metropoli
in quel particolare stato d’animo (alla Emerson: non il pop-singer, ma Ralph
Waldo, sempre lui, il filosofo del ‘divenire’, quello per cui “le preghiere degli uomini sono una malattia
della volontà e i credi una malattia dell’intelletto”). Sì, questo il suo
preludio nuiorchese. Un po’ alba di Pugnochiuso un po’ notti al Cairo. Una
malattia e una preghiera. Ma lui ora era in convalescenza. E una volta guarito,
avrebbe vissuto d’altro: di architettura, forse di preghiera…
Era il Kairòs, il
calvario era finito (dopo la salita, la discesa) e le lancette si erano
fermate: a mezzogiorno. Prima l’est (Pugnochiuso: una porta, una delle tante,
sull’Oriente), poi l’ovest (New York, un portone sull’Occidente). Un’oasi nel
caos del tempo. Una sosta tra volontà e immaginazione. E dentro questa, un
viaggio nella selva oscurata dagli skyscrapers, attraverso spazi, tempi,
culture e identità differenti, ma incidenti, intersecatisi in un complesso
network di rapporti ed effetti. E affetti.
“New York è dove
tutti vengono a farsi perdonare” confessa
in Shortbus il vecchio gay, già sindaco (alla frutta) della
Grande Mela. Sì, Shortbus, il gay-movie un po’ a Le fate ignoranti (ma
oltre misura…), porno qui porno là, ma d’autore (film trans-portato al Festival di Cannes; portata un po’ indigesta…),
che ben descrive la metropoli metrosexual. Alla Beckham.
Posh. Qui,
più che altrove, Lorenzo avvertiva la disseminazione della cultura,
costantemente contrattata e in divenire. Eppure, era solo da un paio di giorni
che camminava col naso in su. E senza puzza sotto le narici. La metropoli puzzava, la campagna odorava?
Era tutto oro quel che luceva? La metropoli versus
la città rurale. Due realtà sostanzialmente diverse secondo Georg Simmel,
filosofo quanto mai attento alla realtà urbana (Lorenzo se n’era occupato
ultimamente, in un breve saggio su un giornale locale. Discettando, una
ciliegia tira l’altra, anche di Kevin Lynch, Kurt Lewin e, dulcis in fundo, della
percezione-Gestalt dell’immagine
urbana).
Due
realtà fisiche e due gestalt – forme,
strutture – che incidono diversamente sul modus viventi dei loro abitanti. E
sull’immaginario urbano. Imago mundi. L’architettura che ‘co-stringe’
fisicamente, psichicamente, ‘pneumaticamente’, i suoi sudditi. Architettura da
de-costruire, reset
psico-territoriale, bouleversement creativo.
Punto di partenza, tra riva e ‘deriva’: la
metropoli. Ritmo veloce, giungla di
stimoli, sensazioni e immagini. Versus: l’ambiente
rurale, dal ritmo lento, più
abitudinario e uniforme. “Più la folla è
densa, più ci sentiamo soli”, così Zygmunt Bauman ‘liquida’ la ‘città del
troppo’ (altro che villaggio globale… Troppo annacquato: perciò i localismi
stavano tornando a galla). Ma anche del troppo poco, del troppo uguale,
dell’indistinto. E dell’outlet (e dei continui outing e coming out). Città-teatro-off, metropoli del ‘passaggio veloce’,
del nulla – anche se iper… (e quella
di Marc Augè non è un’iperbole: passiamo la maggior parte della nostra
esistenza in ‘non-luoghi’, dove si consuma il presente e si abortisce
l’avvenire).
La metropoli del denaro e di Mammona versus la campagna del baratto (e della
mamma, quella con le tette gonfie di latte).
Ma anche lo sfilacciamento del tessuto comunitario – altro che manna – a
vantaggio della scolorita ‘stoffa’ periurbana (le periferie anonime e suicidofile,
ipermercati inclusi, per quanto architettonicamente ben disegnati). Luoghi,
non-luoghi? Vita, non-vita? Il bello non ha prezzo.
Vita tra
i confini. Identità versus alterità.
Ma ancor di più: alterità nell’identità. Equilibrio
in bilico. Città plurale, campagna singolare. Spaesamento. Urbanizzazione
selvaggia. Portici, shopping malls, clochardization.
Marginalità inclusiva, gentrification
elitaria. Minimal o segno ipergrafico. Fast-food versus slow-food. Boutique versus
ipermercato? Un po’ l’uno un po’ l’altro. Ma con juicio.
Adelante. Ingoiare, piluccare. Vivere,
sopravvivere. Morire, sognare, svegliarsi, risvegliarsi.
Fare del silenzio un’opportunità, un ‘possibile appuntamento’ per ricevere
intuizioni dal superconscio. Il silenzio della natura che (tra cinguettii e
fruscii) annacqua l’ebbrezza urbana. Vivere
tra i margini (e, spesso, sconfinare…). Questo l’universo quotidiano. Ma
anche l’intellettualità sofisticata, la riservatezza fino alla ritrosia, il
formalismo blasé e il distacco
anodino, il tempo che tutto scandisce e cronometra: questa la metropoli e i
suoi ‘numeri’. Ma dietro il numero c’è Dio…
(tratto da Gocce
di pioggia a Jericoacoara)
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