ROMA AMOR AMARO
Ieri
New York, oggi, in questo magical mystery tour, Roma.
Gocce
di aroma metropolitano (sempre da Gocce di pioggia a Jericoacoara).
Giornate
d’inferno (lavorativo). Fragili all’apparenza, d’acciaio nella sostanza.
Duttili, mai rigide. Anche coi rigori dell’inverno (ormai alle spalle).
Egli
non triterà la canna rotta e non spegnerà il lucignolo fumante... Luci e ombre. A onde. L’estate, non più
un miraggio. Sbalzati un po’ di qua un po’ di là, una spallata al passato, una
piallata al futuro. La vita continuava a scorrere sotto il cielo. Il cielo di
Roma.
Autumn in New York, spring in Rome. Lorenzo e Arianna,
due in uno, definitivamente (la speranza è l’ultima a morire), presa la palla
al balzo avevano cominciato ad allenarsi per la ‘finale di coppa’. Erano finalmente una coppia. Dopo vari scoppi
(e botti). Superati brillantemente i play-off, dopo una bella navigata a vista
tra rapide, balze, cascate, erano giunti, interi, alla meta. Salto dell’Angelo… Tappe decisive: la
fine estate (dietro l’angolo l’angelo) e l’autunno dell’anno kairòs (per loro – e di riflesso… per
l’umanità) del primo decennio del terzo millennio (lo start della fase
esecutivo del progetto); poi l’autunno successivo (il check-point: love-affair); ancora, l’autunno del 2007
(il pit-stop: fall – fall in love),
un po’ delle altre stagioni e, ora (et labora), maggio dell’Anno del Signore, snodo tra primavera ed
estate, l’anno ‘cardine’ (sempre più
al cardiopalma). Un’estate caliente,
più di ogni altra.
Calende di maggio, quando “di fior tutto è una trama, canta germoglia ed ama l’acqua, la
terra, il ciel…” Tutto
tramava. E tremava. Nel bene e nel male. Qahal
e Qabbalah. Chiesa e Mistero. Quo vadis? Il tempo era in tralice, rosa mystica, ma la sera del diciotto
maggio sarebbe stata meravigliosa. Oltre ogni dire.
Dies irae? Tutt’altro, ma
sempre divino. Dies hora. Uno
stralcio d’eternità, un omaggio alla storia, un messaggio alla gente. E non
solo l’italica gente, ma d’ogni taglia e postilla. Complice l’effetto serra, i
fiori di Vidyāpati (“Jātakī,
kunda, ketaki… mille sono i fiori odorosi dell’aprile, ma è fortunato solo
quello che sa attrarre l’indifferente ape bruna”), finemente tessuti da Poliziano, e,
soprattutto, il ‘fattore celeste’.
Hora, dies, vita
fugit, manet unica virtus. La città ferveva, il loro cuore pure. Hot. Con loro due in the sky with diamonds. Ghiaccio secco. Ice. Fuoco sacro, cuori puri, cuori sacri. L’asso nella manica. Fire… Atmosfera Iki. La musica del cuore, due cuori, una città. Arianna, Lorenzo,
Roma.
Nike. Vittoria. Redenzione dei
luoghi e delle anime. “Mostrami che tu
sei redento e io crederò al tuo Redentore.” Era finalmente giunto il
momento di presentarLo, il Redentore. E non solo a Nietzsche, l’’anticristiano’.
“Tu sapessi che cosa è Roma! Tutta vizio e
sole, croste e luce: un popolo invasato dalla gioia di vivere,
dall’esibizionismo e dalla sensualità contagiosi, che riempie le periferie...
Sono perduto qui in mezzo.” Parole (corsare) di Pasolini, incartate e spedite – si era nel
1952 – all’amico Giacinto Spagnoletti, critico militante (e di pari natali di
Lorenzo, in quell’anno appena svezzato. Ma ora, mezzo secolo e passa dopo, la
città ‘delfina’, teoricamente di sogno, viveva ancora tra i fumi. Da un ponte
all’altro. Ancora nel guado. Come da prassi. La città dei due mari, girevole ma
di pietra, era in piena tempesta d’acciaio, scespiriana. Earth, wind & fire. Terra sui balconi, solitari. Vento di
scirocco, tombale. Fuoco siderurgico, una bomba. Città dell’estate, dimezzata,
col respiro corto, sul viale del tramonto. Bella e dannata… – e con la vela
traforata di Giò Ponti a far da spartiacque. In attesa sospirosa – suspiria? – di una Taranto blessing).
Questa (la prima) era la Roma che avevano ritrovato dopo il tour
walk-and-work da globe-trotter (e la molle
Tarentum? In ammollo. Eppure, il suo sol levante e i suoi tramonti
d’occidente – un unicum – avevano sempre più voglia di nuovi orizzonti). L’urbe
capitolina: in bilico tra capitolazione e ricapitolazione (per il momento
ancora tutta lucchetti, ma anche moine
e smorfiette). Tutta generazione
dello scusa-ma-ti-chiamo-amore. E con un look al passo col vento (dal
ponentino era passata all’’attimino’).
Tappeto rosso, città color rosso vermiglio… (città
futurista, o passatista?). Arianna e Lorenzo, provocatori post-litteram,
spiaggiati nell’Urbe, bagnati dalla Fontana di Trevi ma non spiazzati, avevano
anche loro colto l’attimo, quello senza diminutivo (il Kairòs). Il carpe diem avrebbe scandito i dies corporis, i giorni del corpo.
Corpo, anima e spirito finalmente, e definitivamente, in sintonia: tripudio
della vita, ripudio della morte.
“Coi secchi di vernice coloriamo
tutti i muri, case, vicoli e palazzi…” Ora non avevano più scusanti.
Dovevano agire. Senza aspettare il domani (il daimon era lì, qui e ora). E infatti, quanto all’hic et nunc,
trascurarono sightseeing e shopping alle soglie del week-end per prepararsi a
puntino per l’incontro (solo una puntatina serale ad Ariccia per della
porchetta rimpolpante e del Frascati light – alla faccia del classico digiuno
preparatorio: ed era pure venerdì).
Quanto alla sensualità, era ancora martedì grasso. La
Pentecoste, a un dipresso. Una
toccatina e fuga, lo start al tocco (l’una in punto) a base di tartine e più
d’un goccio fluidificante di frizzantino (rosè salentino per giunta), per poi
catapultarsi ben torniti in Piazza San Pietro. Non senza, però, aver prima
vissuto – dopo lo shock-stendhal di fronte al Borromini di Sant’Ivo alla
Sapienza e di San Carlino alle Quattro Fontane (che pure conoscevano bene) – la
notte trasteverina al ponentino. Saturday
night fever, tutta musica e accenni di danza: l’eterno ritorno, sia pur
dissonante, alle caves fiorentine
degli anni ’70 e alla Pugnochiuso anni ’80 e passa (sempre sul chi vive).
”In una città di due milioni e mezzo di
scheletri, la presenza di qualche migliaia di viventi passa inosservata.” Frenesia flaccida d’inconsapevole mestizia.
Ebbrezza da vino di buon mosto. Già acqua, trasformatasi in vin rouge ai primi
sentori di una presenza vicina (Quo vadis? Maranathà!). Roma
rosso-trevi, rubiconda di vernice e di mestruazioni. Urbe gioconda, ancora
faconda di emozioni (e di nuovi figli). Complice. Sfuggente (tocco fuggitivo
alla Cecchini e rintocchi stonati di aromatici Toscani).
“Sei venuto per mescere il
mio vino? Ma il vino con cui mi ubriaco è invisibile.” Sapori forti sempre più dolci. Rosso Valentino versus Dolce &
Gabbana. Fritto misto alla frutta. Grey’s Anatomy. Mistica est-ovest
alla Rumi. Eppure, dietro a quelle poche migliaia di persone vive ce
n’erano miriadi in attesa. Morte, dormienti, appisolate, in fase di risveglio…
E l’aspettativa non sarebbe andata delusa. Nessun trattamento di fine rapporto.
La relazione continuava, tra Arianna, Lorenzo e il mondo; il nodo
gordiano che legava gli individui a forze estranee, anche quando si
ritenevano liberi e autosufficienti, sarebbe stato sciolto. Di lì a poco. Di
questo erano ormai certi. No doubt. La loro non era delusion, pura
follia, né escamotage o escapismo, sia pure alla Houdini. Era certezza. Non la Grande
Delusione. Lorenzo e Arianna erano forse degli illusi, dei ‘fanatici’, dei
‘visionari’, ma la missione cui sapevano di essere stati chiamati non
poteva essere elusa. Loro, come le vergini avvedute, si erano fatte trovare
pronte alla chiamata. Dentro i ranghi, come cani sciolti. Pronti a buttarsi
sulle ossa secche, sui milioni di scheletri.
Loose.
Sciolti, liberi, pronti per diffondere il virus della libertà, della ‘vita
piena’. C’era però bisogno di un ‘tramite’. E di un ‘fomite’, positivo però, di
uno che contava (e che non dava i numeri). Di un ‘filtro’, insomma. Avevano
bevuto l’elisir della dolce vita, avevano vissuto l’alba dorata e il
mezzogiorno di fuoco, non poteva tutto concludersi in (e con) un’algida notte…
Nessun commento:
Posta un commento